mattanza

Quando ho letto la notizia dell’attentato a Manchester ho pensato che tra quei giovani poteva esserci anche mia figlia… un semplice ed innocuo concerto, un ritrovo come tanti, un appuntamento ordinario nella vita di un giovane… e su questo banale incontro crolla addosso una mattanza inaudita, un odio indicibile, un terrore insopportabile…

Come è possibile “dire a parole” quello che è successo? Parlare richiede che quell’evento, quel fatto, siano narrabili, esprimibili con la ragione, traducibili in un linguaggio, che implica la comunicabilità e la condivisione tra uomini.  Ma come è possibile esprimere ciò che strazia i nostri cuori con una veemenza spaventosa, dire che ciò che impressiona le nostre menti con una agganciante crudeltà? Se solo potessimo parlarne, se solo riuscissimo a raccontarlo, ecco che in qualche modo tutto questo sarebbe diventato almeno un po’ umano…

Come abitare un luogo di dolore così estremo? Come vivere in un posto dove non esiste un perché, un come e un quando? È uno spazio dove tutto è follia, violenza irrazionale e cieca, slancio suicida e autodistruttivo, dove la vita ha perso la via e ha smarrito il senso.

Di fronti a questi drammi di infermale memoria siamo tutti costretti a pensare l’impensabile, ad abitare l’inabitabile, a dire parole ineffabili e a contemplare con i nostri occhi cose che mai avremmo voluto vedere.

C’è un dolore muto nel mondo che nessun cuore può contenere e nessuna logica giustificare. C’è un male che attraversa i nostri giorni e di cui non sappiamo darci ragione. C’è una vita ferita, annientata, calpestata che anela un riscatto possibile, come pegno di una umanità ritrovata.


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