Leggevo in questi giorni sulla stampa la vicenda di Trystan e Byff, trentenni di Portland (Stati Uniti) che sono finiti sulle prime pagine dei giornali per la loro singolare vicenda. Trystan è nato donna e da qualche anno ha iniziato un percorso di trasformazione del proprio corpo da femminile a maschile; tuttavia, non avendo rimosso l’apparato sessuale femminile, Trystan è potuto rimanere “incinto” del suo compagno, sicché i due uomini sono finiti sotto i riflettori della stampa in quanto coppia omogenitoriale, ossia due genitori dello stesso sesso. Se la cosa è abbastanza comune in una coppia di donne, lo è assai meno in una coppia formata da due uomini, per ovvie ragioni. Trystan è stato così battezzato nuovo “mammo” dai giornalisti che si sono occupati di lui. La notizia ha ripreso peso ultimamente in quanto Trystan e Byff hanno dato alla luce il loro primogenito.
Mi ha fatto pensare questa vicenda, soprattutto vedendo le foto di Trystan che mostra orgogliosamente il suo pancione, cresciuto su un corpo dagli evidenti tratti maschili.
Non mi permetto di giudicare: conosco molto poco la loro vicenda (leggere due articoli su internet è un po’ poco per articolare un giudizio) e conosco assai meno cosa voglia dire nascere uomini in un corpo di donna, quali fatiche e sofferenze si è costretti a patire, quali muri occorre abbattere, e, non sapendo, preferisco tacere.
Voglio invece condividere un pensiero che questa storia mi ha suscitato, anche se non è direttamente collegato alla vicenda dei due ragazzi statunitensi.
La nostra cultura e la nostra sensibilità oggi paiono meno competenti a riconoscere il senso che abita il nostro corpo sessualmente determinato, sia esso maschio o femmina. L’essere nati uomini e donne pare essere infatti, come dire, quasi un dato accessorio che possiamo cambiare a nostro piacimento. Se fino a qualche decennio fa l’identità sessuale era percepita alla luce di un dato naturale assunto come immutabile ed imprescindibile (tant’è che, ad esempio, l’omosessualità era cosa censurate e bandita) oggi questa identità è vissuta come un dato semplicemente culturale, frutto di convenzioni sociali, di ruoli ed esito solo di un’educazione e di un processo di omologazione sociale.
Proprio in nome di questa identità sessualmente fluida, si avanza il diritto di definire da sé il proprio genere, come se essere nati maschio o femmina fosse un fatto accidentale e, di per sé stesso, insignificante. Credo che la questione sia proprio qui: il senso e significato che diamo al nostro essere maschi e femmine. Oggi stentiamo a riconoscere il significato contenuto nel nostro essere sessuati, come se questo fosse un dato labile e quindi, fondamentalmente, ininfluente. Se i nostri nonni pativano il dato naturale come un macigno inamovibile della loro vita, qualcosa da cui non si poteva fuggire né da cui ci si poteva allontanare, oggi, forse, corriamo il rischio esattamente opposto: la natura è divenuta pura convenzione, sicché siamo diventati sordi e ciechi alla sua manifestazione.
Cosa significa nascere uomini e donne? Che senso attribuiamo al nostro corpo, il quale, dal momento che viene alla luce, è sessualmente segnato, ossia non è un corpo neutro ma è già determinato nel suo genere? Cosa significa vivere da maschio e da femmina in una cultura che considera questi tratti come attributi manipolabili e modificabili?
Forse il mutismo in cui è precipitato il nostro corpo, il suo non essere più portatore di un senso che evidentemente ci precede (dal momento che nessuno di noi ha scelto di nascere maschio o femmina) è qualcosa che abbiamo poco esplorato e che mina l’immagine, un po’ autosufficiente, che abbiamo di noi stessi.