Chi è genitore o gioca con serietà e profondità il suo ruolo di educatore conosce il dolore delle generazione. Non mi riferisco solo alla sofferenza della nascita, di quei primi istanti in cui il bambino viene alla luce: quello è solo il primo di una lunga ed interminabile sequenza di momenti in cui la dinamica del generare è accompagnata da fatica a dolore.
L’esperienza del concepimento avviene in un luogo sicuro e protetto: ciascuno di noi ha iniziato la propria vicenda personale all’interno di un utero che lo ha accolto, difeso, tutelato, in cui i pericoli ed i bisogni erano garantiti, anzi addirittura anticipati da una madre che ci nutriva, riscaldava e preservava. Questa situazione da “paradiso terrestre” non gratifica solo il bimbo ma pure il genitore che sente di avere “tutto sotto controllo”, che sa che il suo piccolo è lì con lui, accudito ed amato.
Ogni legame di cura che stabiliamo con i nostri figli, non può che fare memoria (consapevolmente o inconsapevolmente) di quegli attimi iniziali, non può che misurarsi con quell’ideale di cura che ha contraddistinto i primi attimi non solo della vita del piccolo ma anche della nostra genitorialità.
Sicché accade che ogni esposizione di nostro figlio alla fatica, al fallimento, alla frustrazione del desiderio, assume i tratti della sofferenza per noi genitori: ci sentiamo quasi colpevoli per non essere stati capaci di garantire quella “cura assoluta” sperimentata nel grembo materno. Le tribolazioni di nostro figlio ci diventano qualcosa di intollerabile ed insostenibile; ci creano un dolore acuto nell’animo, come una lama che trafigge il cuore e che dilania il nostro spirito con ferocia sanguinaria. Come ci piacerebbe poter riportare il nostro piccolo nel grembo della madre! Come ci sentiremmo molto più sollevati se lo sapessimo al sicuro nell’utero che lo ha generato, in quel posto in cui la durezza del mondo è mediata dalle calde membra della mamma!
Eppure ci scordiamo che ad ogni utero appartiene non solo una dinamica di custodia ma anche di espulsione, di allontanamento e di fuoriuscita. Il grembo sa contenere ma sa anche lasciare andare, sa congedare, sa allontanare. Ogni grembo sa generare e questa generazione consiste anzitutto in una separazione, in una rottura della simbiosi, in un processo di dolorosissima individualizzazione. Ogni mamma sa quanto ha patito a causa di questo gesto tanto necessario.
Ma non c’è generazione senza tutto questo, senza il movimento di unione e separazione, senza quel gesto capace tanto di custodire quanto di allontanare.
Nostro figlio nasce attraverso le mille ferite che egli procura al nostro corpo, proprio grazie a quelle lacerazioni quotidiane che la nostra carne patisce a causa sua. Quel dolore che soffriamo testimonia la germinazione di una nuova vita, l’accadimento miracoloso dell’esistenza.