“In God we trust”, ossia in “Dio riponiamo la nostra fiducia”: questa frase non è scritta su un libro di preghiere o di meditazioni, bensì sul più laico e mondano pezzo di carta al mondo, la banconota da un dollaro statunitense. È il motto degli Stati Uniti i quali, a mia conoscenza, sono l’unico paese al mondo che citano Dio sulla propria carta valuta. Pare un po’ singolare ma è certamente indicativo dello strettissimo rapporto che gli USA vivono con la propria religiosità, non solo in ambito personale ed intimo, ma come elemento di coesione sociale e di fondamento della propria identità nazionale. È un dato che appartiene alla nascita stessa della confederazione americana e che giunge sino ai nostri giorni attraverso le parole ed i gesti del neo presidente Trump. In fondo, i riferimenti religiosi nel nuovo “commander in chief” sono in linea con la lunga tradizione dei propri predecessori, pur introducendo variazioni e accenti che meritano una, pur veloce, riflessione.
Nel corso del Novecento, alla Casa Bianca, si sono viste diverse rappresentazioni della religiosità americana: c’è stato protestantesimo tradizionale, incarnato da Wilson e da Carter, ed un cattolicesimo “di importazione” rappresentato dalla lunga dinastia dei Kennedy. In entrambi i casi, il sentire religioso era animato da una vena di ottimismo e speranza verso il futuro: la presenza dell’America rivestiva quasi un ruolo messianico nella costruzione di un mondo migliore, guidato e riappacificato dalla sua presenza portatrice di prosperità e progresso.
Con la caduta del Muro e la fine delle ideologie contrapposte, il protestantesimo tradizionale è stato gradualmente soppiantato da quella religiosità legata alle sette, ai telepredicatori, alle mega-chiese che utilizzano le reti televisive ed internet per spargere il loro messaggio ed arruolare nuovi seguaci. Ne sono testimoni, pur da parti politiche opposte, il democratico Bill Clinton ed il repubblicano George W. Bush. È con quest’ultimo, reborn christian, cristiano rinato, che il lessico della politica americana inizia a colorarsi di toni da crociata religiosa. Basti pensare al presidente “vicario di Dio”, alla espressione “guerra giusta”, “l’asse del male”, gli “stati canaglia”. È chiara l’intenzione di “usare” Dio come garanzia e scudo del potere politico-militare statunitense, come fonte di autorità morale ed ispiratore di quei valori di democrazia, bene e progresso che possono, anzi devono, essere esportati in tutte quelle parti del mondo ancora imprigionate nell’oscurità e nell’ignoranza.
Tuttavia con Donald Trump assistiamo ad una ulteriore metamorfosi di questa idea di Dio, che diviene ancora più “tagliata su misura” sullo stile da showman del miliardario newyorkese. Il suo discorso di insediamento alla Casa Bianca ben racconta chi è il Dio di Trump e, di riflesso, della maggioranza di popolazione che lo ha votato. Il Dio Cristiano diviene con Trump il dio dei cristiani bianchi e benestanti, devoti alla ideologia del benessere e difensori di una tradizione, sentita come elemento esclusivo ed escludente. Per il neo presidente l’idea di uomo coincide, come qualcuno ha fatto notare, con l’homo oeconomicus americanus, nel quale trovano una suggestiva sintesi il mito del successo finanziario, la difesa della cultura bianca, la tutela degli interessi della classe media, il sospetto verso lo straniero e un forte e radicale nazionalismo. Il Dio di Trump non è più il Dio dei poveri e degli oppressi, il Dio che ha cura del povero e della vedova, il Dio che elegge gli ultimi come i suoi figli prediletti; esso diviene il dio che benedice la propria terra e la propria ricchezza contro i clandestini ladri ed usurpatori; è il dio che premia i propri eletti con la prosperità ed il benessere: qualcuno lo ha definito un “Prosperity Gospel”, un Vangelo della ricchezza e della classe media.
Interessante ed emblematico, a questo riguardo, è stata la citazione che Trump ha fatto del salmo 133 durante il suo discorso di insediamento: “Ecco quant’è buono e quant’è piacevole che i fratelli vivano insieme!”. Alla tradizionale e fedele lettura che apre la predilezione di Dio per i suoi figli ad una fratellanza universale ed inclusiva, Trump oppone una “sua” interpretazione del testo: egli lo applica in modo esclusivo al popolo americano, nuovo popolo eletto, in virtù delle sue doti economiche, della sua intraprendenza e della sua ricchezza.
Il Dio di Trump è il Dio della propria classe sociale, della propria ristretta comunità, il Dio usato come sigillo e garanzia del proprio successo sfrenato, della propria espansione “civilizzatrice”, della propria ricchezza e della difesa dei propri interessi.
Eppure c’è stato un tempo nel quale, la terra americana guardava a se stessa e al proprio ruolo nella comunità internazionale con altri toni. Memore delle ragioni profonde che hanno portato alla sua nascita, la comunità statunitense si concepiva come terra delle libertà, terra della opportunità personali e sociali, luogo di accoglienza che faceva dell’integrazione della diversità la sua cifra costitutiva. Di questa identità aperta, plurale e complessa da voce il sonetto “The New Colossus”, scritto dalla poetessa statunitense Emma Lazarus e, non a caso, posto su una targa sul piedistallo della Statua della Libertà:
“Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri,
le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi,
i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate.
Mandatemi loro, i senzatetto,
gli scossi dalle tempeste a me,
e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata.”
Era un’America inclusiva, poliedrica, che non temeva il diverso, che non aveva paura dello straniero ma si offriva come casa per coloro che cercavano un futuro migliore, nuove opportunità nella vita, un futuro di pace e di prosperità. Un’America assai diversa da quella raccontata con toni pomposi dal magnate newyorkese.
Questo mio articolo è stato pubblicato sul numero di Aprile di LodiVecchioMese