È diventato un slogan questo “uno vale uno”: si ha l’impressione che finalmente si possa celebrare una democrazia veramente ugualitaria e compiuta, il tripudio di quel sogno che Rousseau aveva coltivato a lungo. La polis amministrata in modo realmente democratico, in cui a tutti è riconosciuta pari dignità, pari peso e responsabilità. È l’utopia di sempre, che nasce nella antica città greca e si traduce in mille e diverse esperienze nel corso dei secoli. La moderna tecnologia informatica offre poi straordinarie opportunità a questa nuova “democrazia diretta”: la possibilità che tutti partecipino con un semplice click, che tutti abbiano la facoltà di esprimersi su ogni singola questione grazie alla potenza della rete: dalla gestione dei rifiuti alle politiche sociali, dalla viabilità al bilancio, dalle politiche energetiche alle politiche internazionali. È il sogno a portata di mano, e tutto questo grazie alle inesauribili risorse della tecnologia…
Ma siamo davvero sicuri che questo straordinario avvenire sia davvero tale? Siamo certi che “uno vale uno” sia la regola su cui fondare una convivenza giusta e realmente democratica, in cui ciascun cittadino possa trovare l’ “humus” per una piena espressione di sé? O non è che dietro questo slogan intrigante e suadente si nasconde una democrazia di facciata che, anziché ampliare, limita di fatto lo spazio per l’esercizio della partecipazione?
Penso che il principio che intende istituire un egualitarismo radicale e diffuso, ponga una opzione chiara e, nello stesso tempo, sovversiva: la negazione del principio di autorità. Intendiamoci: nulla di nuovo sotto il sole. Chi è guarito da qualche anno dall’acne giovanile ricorda che questo era una delle parole d’ordine dei movimenti sessantottini. Ricordate ad esempio, solo per accennare all’ambito scolastico, l’enfasi sul “sei politico”, sulle autogestioni, sulla scuola che non aveva bisogno di maestri ma in cui a ciascuno, rompendo ogni asimmetria, era riconosciuto il dovere ed il compito di parlare, di insegnare e di educare? Non voglio qui entrare in una valutazione di quel periodo (che è stato un tempo complesso e che ha portato certamente anche notevoli progressi per i diritti personali e collettivi), dico solo che quanto si spaccia come il “nuovo verbo” della rete altro non è che la riproposizione (culturalmente meno solida, mi si permetta) di vecchi valori e slogan. Il tentativo di introdurre un esercizio del potere maggiormente distribuito ed orizzontale non è qualcosa nato negli ultimi dieci anni…
“Uno vale uno” è la formula convincente e ammaliante con cui si mina alla radice ogni principio di autorità, quello scientifico, quello istituzionale e quello culturale. Si introduce l’idea che le decisioni si possano maturare attraverso una libera deliberazione del soggetto ed una composizione puramente numerica del volere dei singoli, che si traduce, ipso facto, nel volere di una comunità. Non servono quei luoghi di dibattito, di confronto, di elaborazione e di sintesi, che una volata si chiamavano “corpi intermedi” (partiti, sindacati, associazioni, corporazioni, etc.). In questi il volere del singolo era, per così dire, “costretto” ad un confronto diretto con gli altri e con coloro che erano portatori di una competenza e di una conoscenza specifiche. Ora basta una semplice registrazione “matematica” di un “si” o di un “no” ed ecco che la volontà collettiva prende miracolosamente forma.
Sotto il paravento del richiamo alla priorità del libero volere del cittadino, si celebra un inno alla “autodeterminazione” di ogni singolo, senza accorgersi, ahimè, che quando il cittadino è lasciato solo davanti al suo pc è sempre più debole.
È proprio in nome di questa “stravagante” autodeterminazione, elevata a moderno totem, che si arriva alla critica ai vaccini, faticosamente approvati e sperimentati dalla comunità scientifica, alla inutilità del Parlamento, che è ormai morto, così come sono considerati morti partiti, sindacati e associazioni varie. Ogni principio di intermediazione, che si richiama poi anche ai principii di rappresentatività e responsabilità, ha fatto il suo tempo. Non esiste più, in teoria e nei fatti. Si passa ad una democrazia diretta totale e continua, che, con il richiamo costante ai referendum e alla consultazione popolare, deresponsabilizza chi governa e amministra da ogni possibile conseguenza, e lo esonera dalla necessaria competenza e dall’altrettanta necessaria ricerca di soluzioni mediate.
Sì, perché, in questa nuova logica, il “mio” parere vale quanto il “tuo”, in quanto “uno vale uno”… non importa quale competenza o conoscenza hai maturato, di quale sapere sei portatore. Sulle politiche sanitarie, quelle energetiche, fiscali tutti hanno il diritto ed il dovere di esprimersi con uguale titolo…
In questo scenario post-democratico vi è poi un ulteriore assunto che rappresenta l’architrave del sistema: il valore sommo ed indiscutibile dell’onestà. Intendiamoci: non si parla qui del dovuto ed indispensabile valore di integrità che deve necessariamente accompagnare ogni agire privato e pubblico. No, qui si dice una cosa diversa: si osanna l’onestà come il valore in presenza del quale tutti gli altri passano in secondo piano. L’onestà è capace di legittimare qualunque ruolo e responsabilità, qualunque decisione ed opzione. Ci servono persone oneste, si dice; non importa se preparate o competenti. L’onestà è capace di supplire ogni cosa, pure l’inesperienza e l’improvvisazione.
Ma mi chiedo: fareste gestire i vostri quattro soldi (per la quantità parlo a titolo personale) dalla famosissima “casalinga di Voghera”? Lasciare a lei gli investimenti dei vostri soldi, decidere se comperare BOT o BTP, affidarsi al suo giudizio per la scelta del piano pensionistico, della polizza sanitaria o del mutuo della casa… Ma se non lascereste, giustamente, a lei queste decisioni (non per snobismo ma perché riconoscete che occorrono capacità e competenze per certe scelte) perché ci si accontenta di lasciare a chiunque le determinazioni che riguardano le finanze pubbliche? L’uguaglianza non è fare tutti le stesse cose, ma dare a tutti le stesse possibilità, riconoscendo le competenze e capacità che altri hanno maturato. Funzionano così i sistemi complessi, come lo è la nostra società: c’è un principio di specializzazione, grazie al quale ciascuno acquista competenza in un certo ambito e si affida ad altri per gli ambiti di cui non ha conoscenze. Vale per la medicina, per l’edilizia, per l’insegnamento, per l’ingegneria, per la finanza; ma così vale anche per l’impianto idraulico di casa nostra, quello elettrico e, talvolta, per la cura del giardino di casa. Vale per queste cose e vale per la politica: in questo senso non ci si improvvisa amministratori, sindaci, presidenti di provincia e regione, parlamentari e presidenti del consiglio. Come per tutte le cose della vita, serve preparazione, tirocinio ed esperienza.
Mi è passato tra le mani un bel testo di Benedetto Croce, datato 1931. Il filosofo già allora ironizzava su questa presunta enfasi della onestà. Scrive nel saggio “Etica e Politica”: «Un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa della onestà nella vita politica. L’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli e prende forma nelle non cantate prose delle loro invettive e declamazioni e utopie, è quello di una sorta di areopago, composto di onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del proprio paese. Entrerebbero in quel consesso chimici, fisici, poeti, matematici, medici, padri di famiglia, e via dicendo, che avrebbero tutti per fondamentali requisiti la bontà delle intenzioni e il personale disinteresse, e, insieme con ciò, la conoscenza e l’abilità in qualche ramo dell’attività umana, che non sia peraltro la politica propriamente detta: questa invece dovrebbe, nel suo senso buono, essere la risultante di un incrocio tra l’onestà e la competenza, come si dice, tecnica». E continua, con un guizzo di sarcasmo: « È strano (cioè, non è strano, quando si tengano presenti le spiegazioni psicologiche offerte di sopra) che laddove nessuno, quando si tratti di curare i propri malanni o sottoporsi a una operazione chirurgica, chiede un onest’uomo, e neppure un onest’uomo filosofo o scienziato, ma tutti chiedono e cercano e si procurano medici e chirurgi, onesti o disonesti che siano, purché abili in medicina e chirurgia, forniti di occhio clinico e di abilità operatorie, nelle cose della politica si chiedano, invece, non uomini politici, ma onest’uomini, forniti tutt’al più di attitudini d’altra natura». E così conclude « ”Ma che cosa è, dunque, l’onestà politica?” si domanderà. – L’onestà politica non è altro che la capacità politica: come l’onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze».
Temo che il buon Croce abbia ragione: l’onestà altro non è che fare con integrità e competenza il proprio dovere. Un medico che agisse con buone intenzioni ma mancanza di capacità non è un medico onesto… è un ciarlatano…
Questo mio articolo è stata pubblicato sul numero di Maggio di LodiVecchioMese