Juri e Luis giocano con noi a basket da diversi anni. Li ho visti crescere da bambini ed oggi sono dei simpatici preadolescenti, proprio come tutti gli altri ragazzi della squadra: curiosi, amabilmente impertinenti, sguardo vispo e un sorriso tra lo spaesato e lo scanzonato. Amano stare in palestra per gli allenamenti, si impegnano e faticano come tutti, si sfidano sul campo da basket durante le partite con un mix di timore e agonismo, passione ed impegno, coraggio e paura. Come spesso accade a questa età talvolta la fedeltà all’impegno un poco vacilla ed occorre rimotivarne la scelta. Insomma nulla di speciale, anzi una quotidiana ovvietà per chiunque sia impegnato in un cammino educativo con ragazzi di questa fascia di età. Una cosa però per Juri e Luis funziona in modo un poco diverso rispetto agli altri ragazzi della squadra: ogni volta che dobbiamo fare l’iscrizione al campionato federale occorre chiedere un particolare nulla-osta alla federazione cestistica del loro paese di origine. Sì, perché, nonostante tutte le apparenze, i due ragazzi non sono cittadini italiani, non ancora…
Penso a questo fatto ogni volta che ascolto qualche discussione sui media sul tema dello ius soli, ossia della possibilità di concedere la cittadinanza italiana a coloro che, essendo nati in Italia ed avendo frequentato le nostre scuole, sono ormai di fatto divenuti parte della nostra comunità civile nazionale, anche se il sangue che scorre loro nelle vene, non proviene da genitori di nazionalità italiana. Penso a Juri e Luis quando sento queste controversie, perché ho l’impressione che, spesso, la questione venga approcciata come un tema talmente teorico e generale che rischia di prescindere dalla vita concreta delle persone, dalla loro consueta quotidianità e dalla loro ordinaria esistenza. Confesso che faccio fatica a parlare di ius soli senza avere sotto gli occhi i volti sorridenti o arrabbiati di Juri e Luis; trovo difficile trattare questo tema “a prescindere”, come fosse un argomento da dissertazione accademica o da talk-show televisivo. Quando penso alla possibilità di riconoscere un diritto di cittadinanza a chi è nato qui e qui si è integrato mi passano involontariamente davanti agli occhi i tanti Juri e Luis che frequentano le classi delle nostre scuole, giocano nelle nostre squadre di calcio, basket o pallavolo, condividono le nostre stesse esperienze e bazzicano nei luoghi abituali della nostra vita.
Osservandoli giocare sul campo di basket mi interrogo: ma che cosa manca a questi ragazzi per essere pienamente italiani? O se vogliamo generalizzare la domanda: che cosa serve per essere un “italiano doc”? Juri e Luis sono nati nel nostro Paese, hanno imparato la nostra lingua che è diventata la loro lingua madre, quella in cui pensano e che usano per dialogare con i loro genitori. Hanno frequentano le scuole insieme ai nostri figli; hanno studiato la storia e la geografia del nostro bel paese, ammirato la sua arte, sono andati in vacanza nei suoi meravigliosi posti di mare e montagna; ascoltano la nostra musica, amano la nostra cucina, guardano la nostra televisione e giocano ai videogiochi come uno qualunque dei nostri figli. Conoscono ahimè parolacce e parole ambigue, sanno essere maliziosi ed irriverenti, sapendo usare le sfumature del linguaggio con sapienza e padronanza. Ma la cosa più importante è che Juri e Luis sentono l’Italia come la loro casa, l’unico Paese di cui hanno una esperienza diretta e quotidiana. Questa è la loro terra, forse l’unica che abbiano mai conosciuto davvero. Qui ci sono i legami significativi della loro vita, qui abitano le persone che vogliono loro bene e di cui sono amici. Qui hanno trovato una comunità che li ha accolti ed integrati, accettati e valorizzati, che li ha fatti sentire parte di una comunità nazionale della quale contribuiscono alla crescita e all’avvenire. A bene vedere i loro genitori pagano pure le tasse nel nostro paese, contribuendo e sostenendo quel sistema previdenziale che senza il loro apporto resterebbe zoppicante.
Osservandoli correre insieme agli altri ragazzi “autoctoni” non riesco a capacitarmi di ciò che ci si potrebbe aspettare di più da loro… non è in fondo questo il senso dell’essere parte di una comunità civile? Rispettare le regole di convivenza, assumerne la cultura ed il linguaggio, sentirsi radicati nel suo passato e contribuire alla sua crescita e benessere. In poche parole percepirsi parte di un popolo che affonda le sue radici in un lontano passato e contribuire al suo avvenire. Non è forse vero che lo ius soli, se non vuole diventare una formula vuota e legalistica, deve tradursi in uno ius culturae? Si è cittadini italiani non solo quando uno dei tuoi genitori è tale, ma anche, e soprattutto, quando hai assunto la cultura del suo popolo come il punto di vista da cui osservi il mondo; il suo linguaggio come il principale (anche se non l’unico) strumento che utilizzi per esprimere te stesso, raccontare chi sei, da dove vieni e dove stai andando. Sei cittadino quando ti senti parte viva di una comunità civile, politica e religiosa, condividi le sue leggi, assumi i suoi valori e le tradizioni, ami la sua storia, ti riconosci nelle sue espressioni artistiche e culturali. Magari mi sbaglio ma ho il sospetto che la cittadinanza, quella vera e percepita, sia qualcosa di estremamente più ricco che un semplice dato “ematologico”, legato al tipo di sangue che ti scorre nelle vene; esso ha a che fare con i sentimenti che provi, con i pensieri che abitano la tua testa, con la bellezza che scorgi nell’ambiente in cui vivi, con la passione e l’impegno che metti a servizio della sua comunità. Essere cittadini ha forse, prima di tutto, a che fare con quel luogo in cui ti senti a casa, che riconosci come familiare, affidabile, ricco di promessa e di futuro.
È proprio per questo che, quando guardo correre sul campo da basket questi ragazzi mi convinco sempre più che sono italiani quanto lo sono tutti gli altri. Perché questa è la Patria in cui si sentono a casa, questo è il popolo a cui hanno scelto di appartenere, questa è la comunità a cui hanno deciso di legare la propria identità ed il proprio futuro.
Questo mio editoriale è stato pubblicato sul numero di novembre di LodiVecchioMese