«La chiave della prosperità economica è la creazione organizzata dell’insoddisfazione», osservava, all’inizio del secolo scorso Charles Kettering, direttore della General Motors. E quando questa insoddisfazione non si crea da sé? A questo punto entra in gioco la “obsolescenza programmata”. Di cosa si tratta? Semplice a dirsi: alcuni beni di consumo, in particolar modo prodotti di elettronica, cellulari, stampanti o materiale elettrico nascono con una “data di scadenza”, ossia con un tarlo di produzione che riduce, intenzionalmente, la vita del bene. Tutto questo al fine di incentivare una precoce, quanto redditizia, sostituzione.
È balzato agli onori delle cronache il caso della Apples, accusata di rallentare gli iPhone attraverso l’installazione degli aggiornamenti automatici scaricati sui vari dispositivi. Un po’ meno noto è il caso della procura di Nanterre, che, lo scorso dicembre, ha deciso di aprire un fascicolo a carico di Epson, Brother, Canon e HP, sospettati di mettere in atto la stessa pratica, che dal 2015 è illegale in Francia.
La cosa non è ahimè di recente invenzione, se si pensa che i primi casi che hanno fatto scuola risalgono al 1924, negli anni della grande crisi: dal momento che il mercato delle lampadine arrancava, si ebbe la geniale idea di ridurre il funzionamento delle lampadine dalle 2.500 ore alle più modeste 1.000, sottoponendo ogni singolo prodotto ad un test preventivo di “cattiva qualità”. Il successo di questa iniziativa portò ad estendere questa strategia ad altri settori, aumentando il tasso di usura dei beni e scoraggiando la riparazione: si ricorse a metalli ad arrugginimento precoce, a cerniere di facile inceppamento oppure batterie di breve durata nascoste in alloggiamenti sigillati.
L’effetto di questa folle strategia di crescita è facilmente immaginabile: ogni anno nel mondo si producono oltre 40 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, molti dei quali ad elevata tossicità per via delle componenti minerali presenti. 11 milioni di tonnellate di questi scarti salpano illegalmente verso le coste africane e asiatiche, dando luogo a immense discariche a cielo aperto. Una delle più tristemente note è quella di Agbogbloshie, alla periferia di Accra, capitale del Ghana. Su due ettari di terreno giacciono milioni di televisori, computer, stampanti. Tutt’attorno una “simpatica” baraccopoli dal nome inquietante: Sodoma e Gomorra.
La cultura dell’«usa e getta» compulsivo genera scarti: non solo scorie inquinanti, ma anche rifiuti umani, avanzi di umanità reggetta e scartata. È un mostro che divora ogni cosa, con insaziabile voracità: le cose, l’ambiente e persino l’uomo.
Queso mio articolo è stato pubblicato sul numero di gennaio dell’inserto de “Il Cittadino” Dialogo