Forse aveva ragione papa Francesco quando diceva che non stiamo vivendo un’epoca di cambiamenti ma un cambiamento d’epoca. E temo che l’attuale pandemia non farà altro che accelerare questo processo di trasformazione e mutamento.
Quando l’emergenza si sarà un poco calmata e avremo un po’ più di lucidità per riflettere su quanto è accaduto, penso che ci verrà chiesto di valutare quanto il “tempo del coronavirus” abbia inciso sulle nostre esistenze, sia come individui sia come comunità umana e civile. Che lo si voglia o no, questo tempo, così complicato ed inedito per noi, sta segnando la nostra vita, lo stile della nostra convivenza, i valori che sono alla base della socialità e che ispirano il nostro cammino personale.
Penso, ad esempio, a livello politico: questo periodo ci sta facendo riscoprire il valore delle istituzioni come presidio di democrazia e di tutela del bene di tutti (quanta insofferenza si è vista negli ultimi anni a regole e procedure…), il valore e la centralità di uno stato sociale e di un sistema sanitario efficiente ed universale e l’importanza della competenza nell’amministrare la cosa pubblica (altro che “uno vale uno”…).
Oppure, a livello sociale, abbiamo tutti sperimentato quella dinamica d’interdipendenza che anima l’intero pianeta e come in fondo “tutto ci riguarda” perché tutto potrebbe arrivare nelle nostre case, oltrepassando muri e frontiere che ingenuamente pensavamo di erigere e tracciare; così come abbiamo provato tutti cosa si prova a “finire dalla parte sbagliata del muro”: pensavamo di poter tracciare confini, cullandoci nell’illusione di stare dalla parte “sicura” ma improvvisamente ci siamo trovati nella parte opposta e siamo diventati noi i “reietti” del pianeta.
Penso poi a livello culturale ed esistenziale quanto ci siamo tutti riscoperti fragili e deboli, esposti ad eventi che non possiamo controllare: inebriati dal mito della tecnica che ci illudeva di essere Signori del Cosmo, ci siamo ritrovati piccoli ed indifesi, vulnerabili e “limitati”, costretti a condividere con i nostri avi un senso radicale di precarietà dell’esistenza. E come, allo stesso tempo, ci siamo scoperti “comunità”, locale e nazionale, legati da vincoli di reciproca appartenenza e responsabilità. L’inno di Mameli, che così spesso risuona, non testimonia forse il senso di un “noi”, ritrovato e benedetto, e di comunità che è accomunata da un medesimo destino?
E tuttavia, in questa girandola di considerazioni, c’è un aspetto che mi ha particolarmente colpito e interessato. Nell’epoca del virtuale, dei contatti telematici, delle relazioni a distanza, delle connessioni remote, dei social come nuove piazze e luoghi di incontro, abbiamo tutti sperimentato il desiderio dei corpi, del legame fisico, carnale, concreto. Ci illudevamo di poter vivere nell’iper-spazio, in quel luogo in cui basta un “like” per essere felici ed una “richiesta di amicizia” per vivere sereni, ma improvvisamente ci siamo svegliati affamati di mani da toccare, di volti da accarezzare, di corpi da stringere e spalle da abbracciare. È avvenuto un miracolo: quello che auspica una riconciliazione del nostro corpo con lo spazio, quello che propizia una riappacificazione con la materialità delle cose, con il senso denso e pregnante che ha la realtà del mondo, la sua dura concretezza e la sua affidabile permanenza.
Speravamo di essere salvati dall’ “oltre-uomo” ma si siamo ritrovati aggrappati e felicemente custoditi dalla nostra umanità. Forse è un po’ questa la cifra sintetica di questo strano e doloroso momento: la possibilità che ci è offerta di riabbracciare, con consapevolezza nuova, la nostra umanità, di sentirci pienamente uomini. Fino in fondo, fino in cima.
questo mio articolo è stato pubblicato sul numero di marzo di LodiVecchioMese