il senso della comunità

Ci voleva la mitezza e la moderazione del presidente Mattarella per confermare quello che è ovvio. Talvolta stupisce come le ovvietà facciano così tanto rumore e appaiano così “rivoluzionarie”.

Durante la tradizionale cerimonia del ventaglio il presidente della repubblica si è così espresso: “Auspico fortemente che prevalga il senso di comunità, un senso di responsabilità collettiva. La libertà è condizione irrinunziabile ma chi limita oggi la nostra libertà è il virus non gli strumenti e le regole per sconfiggerlo. Se la legge non dispone diversamente si può dire e pensare: ” In casa mia il vaccino non entra”. Ma questo non si può dire per ambienti comuni, non si può dire per gli spazi condivisi, dove le altre persone hanno il diritto che nessuno vi porti un alto pericolo di contagio; perché preferiscono dire:” in casa mia non entra il virus”. Non fa una grinza.

Non esiste un senso di libertà assoluto, ossia sciolto (ab-solutus) dai legami e dalle relazioni in cui siamo immersi. Vivere in una comunità significa non solo accettare alcune limitazioni alla propria libertà personale (cosa che facciamo tutti i giorni ogni qual volta ci fermiamo davanti alla luce rossa del semaforo) ma anche sentire il senso di responsabilità che la presenza dell’altro invoca. L’irriducibilità del volto dell’altro, come ci ricorda Levinas, appella la mia responsabilità. Di fronte all’altro non mi è concesso di voltare lo sguardo con supponenza o indifferenza.

Se c’è una cosa che questa maledetta pandemia ci ha insegnato è proprio il “senso della comunità”, per usare le parole di Mattarella. Il virus ci ha mostrato, con drammatica evidenza, che nessuno di noi si può chiamare fuori, che non esistono salvezze solitarie, che le speranze di redenzioni individuali si scontrano contro la durezza incontrovertibile del reale. Esiste un senso radicale e vitale di co-appartenenza che innerva la nostra vita e che sostiene le nostre esistenze. Un certo individualismo libertario e anarchico credo abbia ormai il fiato corto: la religione dell’io che sa coniugare i verbi solo alla prima persona singolare mostra ormai tutta la sua fallacia ed inconsistenza.

Nessuno di noi può dire “io” se non grazie ad un “noi” che lo precede e che rende possibile l’individualizzazione del soggetto. Ogni uomo è frutto del dono di una comunità, di un gesto originante che proviene non solo dal ventre di una madre biologica, ma, ancor di più, dal grembo di una cultura che dona le parole per esprimersi, che traccia un orizzonte complessivo di senso all’esistenza, che istituisce legami e vincoli che sostengono le vite. Affermare questa originaria alterità – che non solo ci ha messo al mondo, ma che ogni giorno ci sostiene nell’esistenza – non è frutto di uno sguardo dogmatico o integralista sul mondo, né di una prospettiva moralista o dottrinale. Esso origina dalla disponibilità ad accogliere l’umano nella sua multiforme ricchezza  e nella sua irriducibile trascendenza. L’appello del presidente della repubblica non è un bonario accenno ad un vago solidarismo, né un pio riferimento ad un caritatevole atteggiamento verso il prossimo. Esso traduce ed esprime una visione alta ed integrale dell’uomo, capace di riconoscere ed onorare quelle dimensioni di fondo che strutturano la nostra umanità.

Questo mio articolo è stato pubblicato su Il Cittadino del 4 Agosto 2021


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