La cruda verità delle cose è che la realtà non risponde sempre alle nostre aspettative, sicché spesso si crea una frattura tra ciò che è e ciò che vorremmo che fosse.
Ho imparato che questa è una caratteristica singolare dei rapport interpersonali, ben consapevole che la validità di tale legge si estenda oltre il campo dei legami. È questo forse il tratto più vero ed urticante dell’incontro con l’altro: esso non è mai come te lo aspetti, anzi, ancora più radicalmente, l’altro è un soggetto libero, spesso insensibile alla nostra volontà e al nostro controllo.
Sostiene Marcel Henaff che il rapporto con l’altro è sempre caratterizzato da due consapevolezze: l’altro è sempre avvertito come radicalmente altro (ossia come colui che possiede una sua storia, propri valori, un punto di vista sulle cose potenzialmente diverso e alternativo) e come radicalmente lo stesso (in quanto l’altro condivide la medesima umanità, gli stessi problemi e preoccupazioni, stessi bisogni ed aspirazioni). L’uomo sperimenta questa dialettica interna mai realmente risolta: da una parte l’altro affascina ed intriga, e dall’altra esso è portatore di un quid minaccioso e inquietante. Dell’altro subiamo la seduzione della vicinanza e dell’affinità, di quella sintonia che ci fa sentire “insieme” e meno soli; eppure l’altro possiede sempre questa dimensione di disorientamento, di imprevisto e di rischio.
Chiunque si imbatta in questa dinamica conosce la frustrazione che nasce dalla sperimentazione di questo gap: per quanto ci si sforzi e ci si impegni, resiste una inconciliabile distanza tra noi e gli altri, tra il loro ed il nostro punto di vista sulle cose e nello stile con cui ciascuno abita il mondo.
Ci sono diverse reazioni possibili a questo fastidioso sentimento di “incontrollabilità”. L’aggressione è forse la più facile e primordiale: la seccatura rappresentata dall’altro genera un senso di rappresaglia o di conflitto. Oppure può nascere quel sentimento di risentimento che ammorba le relazioni più belle: il disconoscimento del nostro desiderio fa crescere dentro il pericoloso tarlo del risentimento a motivo del quale proviamo un senso di imperitura insoddisfazione. Vi è poi il sentimento della fuga, della rinuncia e dell’abbandono: ciò che non posso cambiare è meglio che lo lasci andare e smetta di prendermene cura.
E poi vi è la virtù della pazienza, la reazione più difficile ed impegnativa, che esige disciplina e rigore interiore. È paziente non chi si rassegna ma chi sa attendere il tempo propizio, sa lasciare il tempo alle cose e sa far germogliare quanto richiede tempo e spazio.
Inutile dire quanto sia faticoso questo atteggiamento paziente: esso è la scelta di lavorare su se stessi e non sull’altro, di assumere questa frustrazione come occasione di crescita personale e di educarsi all’accoglienza disorientante di ciò che non possiamo controllare.