Vivere da fratelli e sorelle può rappresentare un potente anticorpo rispetto ad una paternità che rischia di essere autoritaria e prepotente. Meritano molta attenzione le parole dell’intervista rilasciata da Jean-Paul Vesco, neovescovo di Algeri, alla testata francese La Vie. Esse interpellano certamente la vita delle comunità cristiane ma, in maniera neanche troppo indiretta, tutti coloro che esercitano una qualche forma di autorità in ambito sociale, civile e politico. Accade, secondo la riflessione di Vesco, che un certo modo di intendere la paternità e l’autorità scivoli verso un atteggiamento di presunta autosufficienza, giacché ci si ritiene all’origine del rapporto che si instaura con l’altro. Vi è una paternità che, esasperando la dimensione asimmetrica che struttura il rapporto, rischia di arrivare a disconoscere la presenza dell’altro, la sua radicale alterità, il suo essere unico e irripetibile. Vi sono padri, in un senso estensivo, che si sentono talmente al centro e all’origine della relazione (spirituale, educativa, politica, sociale, comunitaria, etc.) che giungono ad essere incapaci di onorare la presenza dell’altro nella sua irriducibile differenza.
“Solo il patriarca conserva piena autorità anche sul letto di morte, non il padre. C’è sempre il rischio che la paternità (spirituale), bella di per sé, si trasformi in una paternità patriarcale molto più confinante.”. Ricorda Vesco come la paternità, nel corso della vita di un legame padre-figlio, subisce sostanziali cambiamenti: “nei primi mesi i genitori sono destabilizzati dall’intrusione del neonato (…); poi arriva il periodo educativo in cui i genitori diventano un modello con cui il bambino si confronta (…); poi arriva il momento in cui si crea un’alterità, perché i figli sono diventati adulti; finalmente arriva il momento in cui sono i bambini a prendersi cura dei genitori.” Vi è una radicale reciprocità anche nella relazione paterna che una certa visione patriarcale rischia di dimenticare, cristallizzando un rapporto nella sua fase infantile. “La relazione è quindi minacciata di infantilizzazione permanente”. Non facciamo fatica a pensare, nella vita delle nostre comunità, delle nostre famiglie o dei nostri paesi, a figure di padri che hanno smarrito il senso della reciprocità del legame, ergendosi a patriarchi dispotici, arroganti e persino talvolta violenti.
L’esperienza della fraternità invece lascia il posto ad una salutare e reale reciprocità, ad una mutua procreazione che fa vivere i due poli della relazione. In ogni relazione di paternità vera ci si riconosce entrambi figli, perché entrambi generati da quella speciale relazione che ci mette al mondo. Sentirsi fratelli significa sperimentare sulla propria pelle quella comune dipendenza dalla vita, anche quando siamo chiamati ad esercitare ruoli e compiti di guida e di autorità verso gli altri. La fraternità e la sororità ci interpellano a non smarrire il senso del limite e a cessare ogni forma di autoreferenzialità. Tutto ciò si traduce in uno stile di vita in cui padre è colui che, generando, riconosce di essere generato ed in cui la vocazione alla cura non si trasforma in arrogante signoria di possesso.
Rifrasando quanto Paolo dice ai Corinti (cfr. 2Cor 1,24), essere fratelli è sapere che, quando esercitiamo una autorità, non intendiamo far da padroni sulla vita altrui ma essere collaboratori della loro gioia.