Abituata a secoli in cui le comunità cristiane sono state il cuore della società, potendo indirizzare ed influenzare valori, atteggiamenti e comportamenti, oggi le chiese vivono, con una evidente fatica e spaesamento, questo periodo di apparente irrilevanza sociale. È da decenni che i sociologi della religione ci spiegano che stiamo attraversando un tempo di fine della cristianità, ma l’accettazione e la consapevolezza profonda di questo nuovo status stenta a innervare la vita e le scelte delle nostre comunità. Si sperimenta un senso di frustrazione, di fastidio, di ingratitudine verso un mondo che non ci riconosce più un ruolo essenziale. Non è raro che da questa insofferenza nasca una dinamica di rabbia e risentimento con la conseguente, letale, pulsione a ritirarsi, a lasciare il campo, a chiudersi in una cittadella fortificata dove tutto continua come prima.
È evidente che la marginalità a cui siamo costretti, il fatto di non essere più il crocevia di scelte, visioni e significati, è un boccone difficile da digerire, soprattutto per coloro che, abituati a ben altri tempi, percepiscono la centralità ed il potere come necessari per l’annuncio del Vangelo. In fondo la preoccupazione è che una Chiesa povera, periferica e marginale sia una Chiesa impotente, limitata nella sua azione di annuncio, incapace di vivere in pienezza la sua vocazione.
Eppure credo che in questa marginalità risuoni la voce della Spirito, che in questa apparente irrilevanza si celi qualcosa che meriti di essere capito, accolto ed onorato.
Mi chiedo se il luogo della periferia, umana, esistenziale, affettiva non sia il nuovo areopago in cui siamo chiamati a portare il lieto annuncio. Mi domando se la diaspora spirituale e culturale che come cristiani sperimentiamo non siano il nuovo ed inatteso spazio di annuncio e testimonianza, luogo benedetto, benché impervio e talvolta inospitale, quel deserto umano in cui ancora far risuonare la promessa di vita buona.
Occorre certo passare da una dimensione “centralizzata” a una policentrica, in cui l’esperienza della fede è accessibile non nell’uniformità dei cammini ma nella pluformità delle esperienze, dei percorsi esistenziali, delle traiettorie personali. Occorre passare da una comunità che vive sotto il campanile ad una capace di abitare i tanti luoghi umani in cui scorre l’esistenza delle persone, in cui si elaborano progetti, in cui si sperimentano le fatiche e le angosce, in cui si cerca di dare un senso al susseguirsi impazzito dei giorni. Serve una comunità estroflessa, per nulla autoreferenziale, poco interessata ai numeri e alla strutture, ma disponibile ad impastarsi, come fa il lievito, con le vicende concrete e spesso ambivalenti degli uomini, vivendo quell’accoglienza incondizionata che ha imparato dal suo Maestro.
Forse è venuto il momento di lasciare il tempio di Gerusalemme ed iniziare a percorrere le mille Galilee che ancora oggi troviamo nelle nostre città, nei nostri paesi, nei nostri posti di lavoro, nelle scuole, nelle famiglie, nelle comunità informali che generano la nostra società. In fondo credo serva vivere una compagnia concreta, feriale, umile, nascosta, capace di dire una parola di speranza, non in forza della credibilità dell’annunciatore ma dell’affidabilità del messaggio.
Chissà che non ci faccia bene imparare a perdere un poco il controllo, il riconoscimento ed il potere, affinché questo nuovo “deserto spirituale” sia l’opportunità di sperimentare un nuovo affidamento verso ciò che davvero conta e che non delude. Chissà che il silenzio delle parole, dei documenti e delle pratiche non sia in realtà la condizione affinché la sola parola Buona possa nuovamente risuonare nelle tante periferie del mondo! Chissà che il sentirci dispersi nel mondo non si traduca nella possibilità di fare nuovi incontri, di tessere nuove relazioni, di creare nuovi legami e, grazie a loro, di rendere ragione della speranza che è in noi.
pubblicato su Il Cittadino di oggi.