Questo mio articolo è stato pubblicato sul numero di Giugno di LodiVecchioMese
Un tempo eravamo stretti tra la destra e la sinistra, tra socialismo e liberalismo, tra mercato e stato. Pare che la post-modernità, nella quale tutti, volenti o nolenti, siamo costretti a navigare, ci abbia depredato anche di questa polarità, che aveva attraversato tutto il Novecento. Sono diventati concetti labili quelli di destra e sinistra, come dei fantasmi dietro ai quali pochi ormai sembrano trovare protezione. Non sono scomparsi, certo che no, ma sono come delle monete di vecchio conio che sono destinaste, con il tempo, ad andare fuori circolazione.
Basta guardarsi attorno ed osservare le vicende del nostro mondo per accorgersi che un nuovo paradigma si sta affermando: le elezioni americane, il referendum sulla Brexit, le elezioni francesi (sia quelle presidenziali che quelle parlamentari) e le elezioni inglese sono tutte lì a testimoniare che, per capire quanto ci succede attorno, occorre indossare degli occhiali diversi ed abbandonare quelle lenti di interpretazione che al giorno d’oggi sono poco efficaci.
E così, alla classica opposizione ricchi-poveri, operai-capitalisti, borghesi-proletari si sta gradualmente, ma ormai saldamente, sostituendo la divisione tra globalizzati e sovranisti, (ovviamente qui c’è solo l’imbarazzo della scelta per trovare un nome a queste due categorie inedite…).
I primi sono coloro che (senza lesinare critiche a questo modello di sviluppo) accolgono la globalizzazione come un dato dei tempi, e, pur in mille difficoltà, si muovono con sufficiente scioltezza in questo mondo; ne colgono le opportunità ed i limiti e stanno maturando le difese immunitarie per quegli aspetti più disfunzionali che maggiormente penalizzano le persone. Sono generalmente persone con un discreto livello culturale, forse più attrezzate a sostenere il confronto con un mondo globalizzato sempre più competitivo. Giusto per intenderci (ma qui davvero la misura è fatta a “spanne”) sono coloro che hanno votato il “remain” nel Regno Unito e hanno sostenuto Macron alle elezioni francesi.
C’è poi un altro gruppo sociale, di altrettanta stima e valore, che, nella fluidità e nella volatilità della società contemporanea, si percepiscono maggiormente esposti e vulnerabili e così optano per una chiusura difensiva della propria comunità, sia essa locale, corporativa o nazionale. Per costoro la protezione del proprio territorio è una scelta necessaria; propendono, più o meno consciamente, per una società che si ispiri ai valori dell’ordine e della tradizione, per un maggior controllo o addirittura una chiusura dei confini, e sono contrari a tutti quei meccanismi che prevedono una cessione di sovranità ad istituzioni sovranazionali, europee ed internazionali. Questo gruppo sociale è forse quello che è stato maggiormente penalizzato dall’economia globalizzata: la fuga del lavoro all’estero, la delocalizzazione, l’immigrazione di manodopera a basso costo, le concentrazioni economiche, la competizione con i mercati emergenti, hanno rappresentato un serio motivo di preoccupazione, impoverimento e di perdita del ruolo sociale.
Questi due gruppi sociali pare che sperimentino la “realtà delle cose” in modo completamente differente. Pur essendo, in molti casi, vicini di casa hanno la percezione di vivere in due “mondi paralleli”: ciò che per uno è opportunità, occasione, crescita e sfida, per l’altro è minaccia, danno, rischio, crisi. La mobilità è un vantaggio per i primi, perché significa per loro possibilità di viaggiare, conoscere, crescere, confrontarsi; per i secondi rischia di essere un serio problema, obbligandoli a relazionarsi e a competere con persone che giungono da lontano, parlano un’altra lingua, “rubano” il loro posto di lavoro e minacciano le loro tradizioni ed abitudini. L’internazionalizzazione penalizza i secondi mentre è l’ “humus naturale” per gli altri. Allo stesso modo la competizione globale si declina come una opportunità per gli uni o una minaccia per gli altri. E così, fatte le debite approssimazioni, il mondo contemporaneo viene colto come il nuovo habitat in cui vivere da una parte della popolazione, mentre è vissuto con ansia e preoccupazione da un’altra.
Un’altra categoria che ci aiuta a leggere questa nuova polarizzazione degli umori (parallela a quella di globalizzati-sovranisti) è quella di centro-periferia. Badate, non intendo qui riferirmi alla classica distinzione tra primo, secondo e terzo mondo ma a qualcosa di più sofisticato e complesso. Il “centro” è il luogo del potere, delle possibilità, delle opportunità, del futuro e della crescita; è il luogo della conoscenza, dei diritti, delle tutele, delle garanzie e delle protezioni. È il luogo di una società umana ed umanizzata, in cui i legami sociali sono ispirati alla giustizia e alla solidarietà. Le “periferie” (perché al plurale occorre parlarne) sono invece i posti in cui si lotta per vivere, in cui c’è spesso sopraffazione, precarietà, insicurezza, esclusione, in cui il tessuto sociale è intriso di violenza ed aggressività, individualismo ed egoismo.
Questa polarità centro-periferie non riguarda solo dei luoghi fisici (nord/sud, settentrione/meridione, Europa/Africa etc.) ma i contesti vitali che attraversano e spaccano anche le nostre società occidentali. Anche nella nostra piccola comunità locale ci sono globalizzati e sovranisti, gente che vive al centro ed altri nelle mille periferie esistenziali. Sì, anche tra noi, nella ricca Lodivecchio, nel cuore della progredita Lombardia, ci sono coloro che colgono opportunità e sfide nel mondo globalizzato, e coloro che non stanno al passo, restano indietro ed arrancano. E costoro non sono la classica classe operaia degli anni passati, non sono gli, ahimè, tradizionali esclusi. Le classi sono più mobili e stratificate, più differenziate e trasversali, più composite ed articolate. In un certo senso la cultura globalizzata genera al proprio interno nuove stratificazioni sociali, nuovi gruppi di appartenenza, nuove classi e soggetti sociali. Le tradizionali classi sociali vengono così mescolate, quasi “frullate” dai nuovi tempi moderni che, in questo processo centrifugo, producono amalgami di consistenza diversa.
Penso che nasca proprio da questa singolare composizione sociale, la difficoltà della rappresentanza politica, della possibilità di interpretare bisogni ed esigenze, di “farsi voce” di una comunità locale, o per lo meno di una sua parte. Gli interlocutori si modificano, cambiano, spesso anche nel giro di poco tempo. C’è una mobilità sociale che riguarda le zone di emarginazione.
Questi tempi richiedono creatività e lungimiranza per interpretare ed affrontare le nuove povertà, le nuove esclusioni, le nuove indigenze. I poveri sono sempre tra noi, come qualcuno una volta ci ha ricordato, ma vestono abiti nuovi, abitano nuovi indirizzi che le categorie di ieri non ci consentono più di decifrare.