il primo straniero

È un’evidenza assoluta: se il cuore si ferma la vita muore. Ma il cuore che ciascuno di noi porta al centro del proprio petto e dal quale dipende la sua vita, batte senza che la nostra ragione o la nostra volontà possano comandarne il ritmo. È un paradosso elementare che si iscrive al centro della vita: il cuore che la mantiene viva, è il nostro cuore, ma è, al tempo stesso, una pompa che agisce a prescindere da ogni istanza di controllo. La vita del cuore trascende la nostra vita pur essendo al centro della nostra vita.

Non dovremmo allora vedere nel carattere autonomo di questo battito un primo volto — il più prossimo — dello straniero? La vita del cuore non è un’esperienza perturbante, come direbbe Freud, dove la familiarità più intima e l’estranietà più radicale si intersecano? La potenza autonoma della vita, la sua eccedenza, non è forse sempre in parte straniera a se stessa? (…)

Invitato ad intervenire sulla rivista Dedale in un numero monografico del 1999 dedicato a La venuta dello straniero, il filosofo Jean Luc-Nancy evita di parlare direttamente sul tema del razzismo e, prendendo tutti in contropiede, racconta l’esperienza vissuta del trapianto del proprio cuore. Il verdetto della scienza medica era stato inappellabile: solo un nuovo cuore gli avrebbe permesso di continuare a vivere poiché il vecchio aveva esaurito la sua carica. Una sostituzione si rendeva clinicamente necessaria: il cuore di un altro, di uno straniero (di uno zingaro, di un ebreo, di una polacca, di una nera, di un’omosessuale) doveva subentrare al posto del cuore del filosofo.

Ma per rendere possibile un trapianto la medicina sa bene come sia necessario abbassare le difese immunitarie prevenendo eventuali crisi di rigetto. Per consentire alla vita di continuare a vivere — è questa la lezione che possiamo trarre dall’intenso racconto autobiografico di Jean-Luc Nancy — è necessario ridurre l’identità sostanziale di quella vita; è necessario il meticciato, la transizione, la porosità dei confini, la contaminazione con lo straniero. Senza questa apertura, infatti, la vita morirebbe.

Lo straniero, il cuore dell’Altro, è l’intruso che non porta la distruzione, ma la possibilità di un rinnovamento della vita. A condizione però che la vita sappia rendere più flessibili i propri confini identitari. Non è questa una lezione etica e politica profonda? Se la vita umana necessita di avere dei confini determinati (la vita senza confini è la vita disperata della schizofrenia), l’irrigidimento del confine, la sua ipertrofia identitaria, rischia di fare morire la vita stessa.” (Massimo Recalcati)


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