A volte mi chiedo se amare qualcuno non significhi proprio patire con struggente dolore il senso dell’abisso che vi divide, di quella radicale diversità che abita la vostra relazione, quell’abisso che separa la tua vita dalla sua, il tuo modo di sentire dal suo. Amare qualcuno a volte ha poco a che fare con il romanticismo dei baci perugina, con quel sentimento di attrazione, emulazione, fascino e seduzione che colora ogni relazione sul suo nascere. Non mi riferisco necessariamente all’amore per il partner… forse questa condizione accomuna gli amori più disparati molto più di quanto pensiamo. L’amore nasce dalla fascinazione per ciò che nell’altro è diverso da te, da quanto è straniero, incompreso, lontano. Anzi l’amore si alimenta di questa distanza: i venti che soffiano tra le pareti dell’abisso che vi divide gonfiano le vele della relazione, dandole vigore e forza.
Ma giunge il momento in cui questa distanza, questa differenza, divengono qualcosa di oneroso, di faticoso, di pesante da sopportare. Vorresti che un ponte sapesse collegare gli estremi del dirupo che vi separa; vorresti che un briciolo di similitudine facilitasse e rendesse meno ingrato e laborioso il vostro legame. Ma generalmente così non avviene. Ma forse (azzardo, non ne sono sicuro) l’amore vero inizia lì, in quell’attimo in cui scegli di amare l’altro nella sua irriducibile lontananza e diversità. L’amore vede la luce quando sai tollerare questa distanza e ne fai il luogo di una cura dolorosamente totale e totalmente disinteressata. L’amore nasce quando cessi di colmare gli spazi tra te e l’altro, quando fuggi il tentativo di ignorare gli iati che si creano, le fessure che vi dividono. L’amore nasce quando onori la diversità dell’altro come il santuario della sua bellezza, come il sacrario della sua preziosità. L’amore nasce, forse, quando accetti che questa differenza ti possa ferire, che ti possa disorientare, che turbi il tuo animo. L’amore forse è così: è lasciarsi inchiodare le mani in un abbraccio che ferisce e trafigge.