Riprendo quanto accennavo in fatti di affetti, fatti di carne in questo articolo pubblicato sul numero di Maggio di LodiVecchioMese.
***
Tutto ciò che accadde di nuovo, tutte le innovazioni ed i progressi, soprattutto se radicali e repentini come quelli di questi anni, ci obbligano a guardare con occhi inediti a tutte quelle cose che fino ad ieri avevamo dato per scontate e che ora così scontate non paiono più. Tutte queste novità è come se ci spronassero a riappropriarci e a riscoprire il nostro essere uomini e donne. Ciò che fino a ieri era evidente e scontato, oggi non lo è più ed esige uno sforzo di ricomprensione, discernimento e valutazione.
Tra le cose che oggi non sono più così tanto ovvie c’è sicuramente l’essere mamma e papà: i canoni che hanno identificato e accompagnato la maternità e la paternità per secoli oggi hanno improvvisamente perso di valore e di consistenza, sono diventati obsoleti, frutto di una tradizione che ha perduto il suo valore e la sua significatività. Fino a qualche decennio fa l’essere padre e madre era un fatto esclusivamente “naturale” e biologico: eri padre in quanto avevi passato i tuoi geni a tuo figlio e restavi padre anche se di quel figlio ti dimenticavi o lo trascuravi. Il tuo essere padre era una cosa talmente “solida” che restavi tale anche se eri responsabile di violenze o incurie verso tuo figlio, di disinteresse o indifferenza. Padre diventavi e padre saresti rimasto “a prescindere”.
Oggigiorno, vivaddio, abbiamo compreso che la paternità e la maternità non sono solo dai dati biologici ma anche sociali, culturali, affettivi, etici e spirituali. La maternità e la paternità sono dati umani “a tutto tondo”, afferiscono alla nostra carne, alla nostra identità di uomini e di donne appartenenti alla specie umana. In fondo abbiamo capito che generare è diverso dal procreare, è un’esperienza più ricca, più complessa e più radicale. Alda Merini, in una sua poesia, ricordava che si genera infinite volte, si genera ogni giorno che si vive insieme al proprio figlio. Generare non è un evento ma un processo, non è qualcosa che si esaurisce nello spazio di un orgasmo, ma è un cammino che avviene nel tempo, con una gestazione infinita che inizia nel giorno della nascita e si protrae negli anni.
Come spesso accade, il rischio è di passare da un estremo all’altro, negando ciò che di buono e di vero esisteva in quella visione tradizionale che oggi riteniamo superata. Sono notizie fresche di cronaca quelle che riportano come numerosi uffici di stato civile, in varie città italiane, abbiano riconosciuto la genitorialità giuridica a due uomini o due donne, sicché oggi in Italia ci sono bambini che, anche per la legge, hanno due mamme o due papà.
Sono evidenti alcune delle ragioni che hanno mosso gli amministratori a procedere in tale direzione: la presenza di due adulti capaci di esercitare la patria potestà è certamente un fattore di maggiore tutela per il minore. E tuttavia ho come l’impressione che le cose non siano così semplici come possono apparire a prima vista, né così neutre ed innocue.
Da genitore adottivo so che essere papà e mamma non è un fatto necessariamente legato ai geni: ci sono casi in cui questa genitorialità biologica, per diverse ragioni, viene affiancata o addirittura sostituita da una genitorialità adottiva, affettiva e spirituale. Questa genitorialità “surrogata” non è un genitorialità di serie B: sei padre e madre di quel figlio fino in fondo e patisci, sulla tua carne, le gioie ed i dolori dell’essere mamma e papà. Allo stesso tempo, so benissimo che quel dato biologico non è qualcosa che posso ignorare o trascurare: i cromosomi ceduti nel momento della fecondazione restano come un dato con cui ogni figlio e ogni genitore dovranno sempre convivere e con i quali fare i conti. Sia che si tratti di figli nati dalla pancia che di figli nati dal cuore. Possedere certi tratti somatici, certe caratteristiche fisiche, avere i capelli rossi della nonna e le orecchie a sventola del nonno, il naso aquilino della zia o i le lentiggini della mamma non sono qualcosa che può essere semplicemente dimenticato o rimosso. Non sono dettagli superficiali o banali: noi siamo il nostro corpo e questo nostro corpo è segnato da quella qualità che i geni sanno imprimere.
Ho l’impressione che oggi si tenda a sottovalutare questo debito originario che abbiamo verso la carne, a sminuire l’idea che la nostra corporeità ci identifica, ci connota, appartiene non solo al modo in cui appariamo ma, molto di più, alla nostra identità profonda, alla maniera in cui ci percepiamo e al senso profondo della nostra personalità. Nutro il sospetto che un certificato di stato civile non sia in grado di dare ragione di questo nostro legame atavico con il corpo che ci ha generato, con la carne che ci ha messo al mondo, con la tradizione familiare nella quale abbiamo visto la luce. Ciascuno di noi vive un debito radicale verso l’Origine che ci ha generato, la cui presenza accompagna i nostri giorni dal momento in cui iniziamo ad abitare questa terra fino all’attimo in cui la abbandoneremo. E forse oltre.