Chi inizia ad avere qualche capello grigio in testa, ricorda che fino a non molti ani fa le campane nel nostro piccolo paesello non erano attivate automaticamente ma il tutto era gestito a mano. Lungo la torre campanaria scendevano delle lunghe funi che terminavano nel piccolo locale alla base del campanile, a cui si accedeva dal fondo della navata destra della chiesa. Era una piccola stanza di pochi metri quadrati, piuttosto buia ed umida, con un alto soffitto che conteneva diversi fori dai quali uscivano robuste funi di corda. Ogni corda si depositava a terra formando lunghi serpentoni a cui occorreva fare particolare attenzione giacché, quando le campane erano in movimento, queste corde salivano e scendevano con straordinaria forza, tanto che erano nate leggende (credo che fossero tali) di inavvertiti ospiti arpionati dalle corde e trascinati verso l’alto.
Le campane venivano suonate in gruppo solo nei giorni di festa: in tutti gli altri giorni feriali il sacrista si limitava a tirare una o due corde in modo un po’ ripetitivo. Ma erano le festività che vedevano la presenza dell’intero gruppo dei campanari, che, prima della “mesa granda”, si ritrovavano per dar vita al concerto di campane. Era, a suo modo, un piccolo gruppo di eletti, a cui si poteva essere ammessi dopo aver dato prova di abilità, forza e passione. Erano persone che da anni immemori facevano questo servizio e che conoscevano tutti i trucchi del mestiere. Anche in questo piccola élite c’era una indiscussa gerarchia, costruita in base al peso e alla melodia della campana suonata durante il concerto. Il tutto era diretto dall’anziano del gruppo, che non solo aveva alle spalle anni e anni di suonate ma che conosceva le diverse melodie, stampate con il fuoco nella sua mente. Infatti quello che ad un orecchio inesperto poteva sembrare una sequenza casuale di suoni, in realtà era frutto di una attenta sequenza di gesti, di movimenti, di prese e di rilasci, tutti fatti sotto l’austera voce del capo campanaro, che comandava con piglio e determinazione. Ogni campana era identificata da un numero: c’era la “prima”, la “secunda”, la “tersa”, etc. (ovviamente il linguaggio di comunicazione tra i campanari era rigorosamente il dialetto) ed infine c’era “el campanon”, il gioiello del coro campanaro, che veniva affidato, per peso (era una campana assai pensante da manovrare) e per prestigio al più autorevole del gruppo. Essere ammessi al rito delle campane non era una cosa semplice: come tutte le “sette” anche i campanari erano gelosi della loro arte, sicché, se ti veniva concesso l’ingresso (normalmente introdotto e presentato da qualche adepto) dovevi state quieto quieto in un angolo, senza fiatare né disturbare, cercando pure di intralciare il meno possibile lo strettissimo corridoio di ingresso.
All’ora stabilita, al suono concordato della campana, il gruppo dei campanari si presentava in fondo alla navata destra e faceva l’ingresso nel locale del campanile. Ognuno, senza troppa discussione, assumeva la propria posizione davanti alla corda della sua campana. Con qualche movimento prendeva confidenza con la fune e piantava con vigore i piedi a terra per poter esercitare al meglio la spinta della braccia. Al segnale convenuto ciascuno afferrava con vigore la propria corda e qui iniziava la magia: il capo campanaro gridava con voce ferma e decisa i comandi per la sequenza della scampanata: “secunda”… qualche istante e poi…”tersa”… “prima”.. “la quinta”… fino alla parola “campanon” che di solito terminava questa prima fase della suonata. Ogni suonatore era completamente concentrato sulla propria fune, tirandola con forza e vigore, attento a non perdere il ritmo battuto del capo campanaro. L’atmosfera all’interno della torre era di concentrazione ed attesa e noi ragazzini, che assistevamo a tale spettacolo, pareva di partecipare ad un rito sacro, segnato da ritmi e suoni arcani. Alla prima scampanata, eseguita secondo il ritmo dettato dal capo campanaro, seguiva un attimo di silenzio: ad un certo istante la guida ordinava “balansa!” il che significava che le campane dovevano essere tenute in posizione verticale ma con il battacchio rivolto verso l’altro. Insomma le campane erano tutte a “testa in giù”, tenute in un equilibrio precario, pronte per essere rilasciate. Era questo il momento clou della scampanata: se infatti all’inizio, quando le campane erano a riposo, i rintocchi iniziavano lenti e un po’ pigri, ora che le campane erano tutte in “balansa” bastava un nonnulla per farle suonare tutte insieme e con grande vigore. E anche questo rilascio era frutto di esperienza e maestria: il capo campanaro cominciava a ordinare il rilascio delle singole campane, secondo melodie tramandate nel tempo, da generazioni e generazioni. Era quello il momento “esplosivo” della scampanata, in cui l’arte del campanari raggiungeva il suo momento topico. La maestria stava in quelle frazioni di secondi in cui la campana veniva lasciata andare, così da formare la melodia attesa. Infatti anche tutto questa scampanio apparentemente disordinato rispettava canoni e tempi precisi. Chi può dimenticare il suono della “appetitusa” (ricordo con un sorriso il nome di questa scampanata) con la sua singolare e suggestiva sequenza di battiti?
E che tutta questa arte non fosse frutto del caso lo testimonia un particolare curioso e forse poco noto. Ovviamente il gruppo dei campanari era ben più numeroso di quelle sei o sette persona ammesse alla sala campanaria. Dato che esisteva una turnazione dei ruoli, molti altri assistevano da casa e dalla piazza alla scampanata. Ed ecco che al termine dello “spettacolo musicale” iniziavano i commenti: “ la quinta l’era en ritard” (la quinta era in ritardo), “el campanon l’è andai giù prima” (il campanone è sceso prima)…e così via. Proprio come si commentava la partita della nazionale, il suono della campane era motivo di discussione per gli addetti al lavoro e non solo. Ciascuno si sentiva in dovere di esprimere la propria valutazione sulla prestazione sonora appena eseguita e di apprezzare o individuare eventuali imprecisioni nell’esecuzione.
Raccontando oggi questi fatti sembra di evocare un mondo che non esiste più e che appartiene alla memoria del tempo: oggi basta un pulsante su un pannello di controllo per avere infinite variazioni di melodie, per ogni gusto e ogni tempo liturgico. Una volta invece il picchiettio del battacchio sulla campana diveniva un gesto comunitario, frutto di un sapere tramandato nel tempo e conservato ed arricchito dalle generazioni. C’era una sapienza in quel movimento che ogni generazione apprendeva dalla precedente e che tramandava, con cura e gradualità, alla successiva. Non esistevano “libri per campanari” ma la conoscenza era condensata in comportamenti, gesti e manualità insegnate nella ferialità della vita, attraverso le esperienze e le “prove” a cui ogni nuovo allievo veniva sottoposto.
Oggi, insieme al gruppo dei campanari, abbiamo smarrito anche il senso di una comunità che è capace di vivere la storia, come occasione per imparare dal passato, migliorare il presente e consegnare al futuro, dentro un fluire del tempo che non conosce fratture o stravolgimenti. In fondo, quel simpatico gruppo di campanari (ricordo tra gli altri El Cavagnin e Ginu El Biund), viveva, forse inconsapevolmente, il valore profondo della tradizione, come l’esperienza che sa articolare il gesto del ricevere, quello del custodire e quello del tramandare, affinché anche altri possano godere di quanto si è depositato nella cultura del nostro popolo.
Questo mio articolo è stato pubblicato sul numero di Giugno di LodiVecchioMese