Terminata la grande “abbuffata” elettorale, forse è venuto il momento di guardare in faccia alla realtà con un po’ più di obiettività. Questa lunghissima campagna elettorale, iniziata non ricordo neanche quando (o forse semplicemente mai iniziata giacché è una dimensione costitutiva dell’attuale politica), temo ci abbia un po’ offuscato la vista, spingendoci ad enfatizzare problemi e tematiche in modo un po’ istintivo ed superficiale, e, soprattutto, ingiustificato alla luce dei fatti e del numeri.
L’immigrazione e l’accoglienza dei profughi sulle coste italiane sono stati i temi “acchiappatutto” che hanno fagocitato la comunicazione dei media, trasformandosi in una sorta di “rumore di fondo” che ha pervaso le notizie, le riflessioni politiche, i titoli dei giornali e le aperture dei TG. La sorte di poche decine di disperati è divenuta una vera questione nazionale, assorbendo, attorno a questa loro sventura, l’attenzione di tutti noi cittadini.
Ma in che modo l’arrivo e la presenza dei questi profughi abbia inciso sulla nostra vita concreta è difficile a dirsi. Certamente non in termini di sicurezza personale e sociale. Nonostante l’emergenza percepita, l’Italia, da dieci anni a questa parte, è uno dei paesi più sicuri d’Europa: proprio in questi anni di supposta “invasione straniera”, gli omicidi volontari sono diminuiti del 40% (erano 611 nel 2008, solo 368 nel 2017), le rapine ridotte del 33% (da 45.000 a 30.000), mentre i furti negli appartamenti sono scesi del’8,5% (erano 214.000, ora sono 195.000). Certo, anche solo un furto o una rapina sono inaccettabili (soprattutto per coloro che li subiscono) ma non possiamo affermare che, dati alla mano, l’arrivo in massa dei migranti abbia peggiorato la sicurezza della nostra vita. Anche dal punto di vista economico è difficile collegare la presenza di migranti con il deterioramento del quadro complessivo: il crollo del PIL, l’aumento dello spread, la riduzione dei posti di lavoro così come la cronica debolezza competitiva dell’Italia difficilmente possono essere giustificati dal fenomeno migratorio. Sono tutti fattori endogeni alla nostra economia, risultato di debolezze strutturali irrisolte da tempo e mai affrontate con determinazione.
Insomma, guardando con un po’ di calma e tranquillità i dati si ha come l’impressione che l’emergenza immigratoria, percepita come tale dalla maggior parte dei nostri concittadini, non sia poi davvero alla radice dei problemi che ci troviamo ad affrontare. In altre parole: una volta bloccati gli sbarchi e rimandati a casa gli irregolari (se mai ce la faremo) temo che ci troveremmo esattamente dove siamo adesso, a dover combattere con le stesse questioni che facciamo finta di non vedere.
Intendiamoci: non nego che l’immigrazione sia una delle grandi sfide del nostro tempo. Mi piacerebbe tuttavia che non l’affrontassimo come un’emergenza, giacché non si tratta di un pericolo passeggero ma di un fenomeno strutturale della nostra contemporaneità. Sarebbe bene poi che non diventasse la scusa per voltare la testa dall’altra parte e non vedere alcune delle grandi sfide che ci attendono nei prossimi anni. Ci sono molte questioni che invocano urgentemente una soluzione e che rappresentano il vero banco di prova per il nostro paese. Ne cito, a mo’ d’esempio, tre, che, a mio avviso, paiono le più rilevanti.
Anzitutto la questione del lavoro. Il lavoro oggi ha assunto un tale livello di precarietà e provvisorietà da non essere più l’elemento decisivo attraverso cui la persona afferma se stessa e promuove la propria libertà ed autonomia. L’articolo 1 della nostra costituzione riconosce che “l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”. Con questo incipit i padri costituenti volevano, non solo affermare la forma costituzionale della nostra nazione, ma anche ribadire che il lavoro è lo strumento essenziale attraverso cui ogni cittadino contribuisce al bene della comunità. L’assenza e la precarietà del lavoro allora non sono solo un limite allo sviluppo della persona (il lavoro è molto di più di uno stipendio o di un sussidio!) ma anche un fattore regressivo per la convivenza civile.
Vi è poi una palese emergenza ambientale. Credo non sia un caso che le nuove generazioni, destinate ad abitare questo pianeta per i prossimi decenni, avvertano questo problema con drammatica urgenza. Abbiamo tutti di fronte una sfida enorme ed affascinante: rendere la nostra vita e le nostre attività compatibili con la sopravvivenza della terra. È in gioco la sostenibilità ambientale delle nostre economie, dei nostri comportamenti e delle nostre scelte. Far finta di non vedere questa criticità ci renderà responsabili di una colpevole ignavia verso i nostri figli.
Infine vedo un enorme problema di formazione, professionale e personale. L’Italia sforna poche competenze e moltissime le perde a causa della fuga dei nostri migliori cervelli all’estero. Costretti a competere in un contesto globale con giganti dell’economia, che hanno un costo del lavoro non paragonabile al nostro, l’unica nostra speranza di sopravvivenza è creare lavoro ad alto valore aggiunto in ambito scientifico, tecnologico, manifatturiero, culturale ed industriale. Invece il sistema paese genera pochi laureati e pochi operai specializzati, non investe sufficientemente in ricerca, innovazione e sviluppo. Anche la formazione personale è una vera emergenza: secondo dati OCSE il 28% dei nostri concittadini non comprende il significato di un semplice testo appena letto, contro una media europea del 15% e con picchi nei paesi nordici del 10%. Pensate cosa significhi, non solo per le singole persone, ma anche per il nostro sistema democratico, questo analfabetismo di ritorno, ossia la presenza di ampie fasce di popolazione facilmente influenzabili, incapaci di farsi un’idea informata, critica e ragionata sulle cose. Rischiamo di diventare un paese esposto alle fake news dei social, alla propaganda battente, sprovvisto di quegli anticorpi culturali che ci rendono persone e comunità libere.
Lavoro, ambiente e scuola: queste (e molte altre probabilmente) potrebbero essere le sfide del nostro domani, se solo smettessimo di cercare il consenso immediato ed istintivo e pensassimo al futuro dei nostri figli. Magari guardare in faccia alla realtà fa guadagnare meno like su Facebook ma si sicuro ci permette di rompere la bolla comunicativa un poco autistica in cui ci siamo rintanati. La realtà ha sempre un volto duro ed urticante, sfidante e coriaceo. Servono persone responsabili e coraggiose, capaci di guardare il domani con cuore impavido ed intelligenza vivida.
Questo mio articolo è stato pubblicato sul numero di Giugno di LodiVecchioMese