Eruv

Si chiama Eruv quel sottilissimo filo, quasi trasparente, che si snoda sopra i pali dell’elettricità per oltre 33 km, attraversando l’intera isola di Manhattan, a New York. Per chi non ne conosce l’origine, quel cavo ha un aspetto strano e magari pure inquietante: cosa ci fa quel cavo appeso a mezz’aria, teso lungo il perimetro del quartiere di Manhattan? È una installazione per la sicurezza? O il rilevatore di qualche strana onda elettromagnetica? O lo scherzo di qualche burlone?

In realtà la cosa è assai più seria e meno minacciosa di quello che si può pensare: si tratta di una recinzione rituale creata dagli ebrei ortodossi newyorkesi.

Come forse sapete, durante lo Shabbat, il riposo ebraico del sabato, agli ebrei non è concesso alcun tipo di lavoro: l’unica attività consentita è la preghiera. In particolare la legge mosaica proibisce di trasportare alcun oggetto al di fuori della propria abitazione. Potete ben immaginare il disagio per chi ad esempio ha bambini dentro un passeggino o malati in carrozzina. Ecco quindi che Eruv viene in aiuto di questi ebrei osservanti, semplificando un poco la loro vita. Dentro tale perimetro, delimitato dal filo, è come se si istituisse una grande “abitazione” all’interno della quale essi possono muoversi come a casa propria, “eludendo” (mi si consenta il termine) in questo modo la ferrea legge rituale.

È proprio per garantire questa libera circolazione durante il Shabbat che, ogni giovedì sera, il rabbino Moshe Tauber ha il compito di percorrere l’intera lunghezza del perimetro per assicurarsi che il recinto rituale non sia stato danneggiato. Sono diverse ore di tragitto che ogni settimana ha l’incarico di compiere, per assicurarsi che le intemperie, eventuali lavori stradali e modifiche agli edifici non abbiano interrotto il filo. In caso di guasto, una squadra di tecnici è pronta ad intervenire per sistemare il tutto. È solo alla fine di questa periodica ispezione che il rabbino può dare il suo “via libera” alla comunità ebraica, affinché  possa muoversi in tutta sicurezza tranquillità.

Al di là dell’apparente stranezza della cosa, espressione di una ritualità così antica nel cuore ricco e moderno di New York, c’è una cosa che ci dà da pensare: in fondo il nostro abitare il mondo è sempre caratterizzato dal bisogno di creare spazi, di identificare luoghi, di eleggere dei territori come ambienti “speciali” in cui possiamo vivere. Per l’uomo “abitare” significa definire, delimitare, circoscrivere uno spazio che viene demarcato come “casa”, ossia luogo in cui è possibile muoversi con serenità e tranquillità.  Dalla caverna dei primi uomini, alle capanne, alle costruzioni in legno fino ai modernissimi edifici fatti con i più innovativi materiali, c’è un filo rosso che lega l’evoluzione: il bisogno di abitare come esperienza di un “di qui e di un di là”, come l’esigenza di un riparo, di un confine, di una separazione. Tutto questo non ha solo una funzione “pratica”, materiale, concerta: essa è animata da un forza simbolica assai esigente, dal bisogno di organizzare simbolicamente lo spazio per farlo diventare un luogo.

Forse il lungo filo dell’Eruv ci strapperà un sorriso sul viso per la sua originale stranezza, ma, al di là della forma, ci rammenta che ogni demarcazione dello spazio è la modalità abituale con cui, ciascuno di noi, riesce a vivere un luogo che sente familiare ed affidabile. In una parola riesce ad abitare.


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