Ci servirà tempo – molto tempo – per capire esattamente cosa sta accadendo e per comprendere in che modo adattare il nostro stile di vita, le nostre abitudini, le nostre strategie personali e collettive alla nuova situazione. Occorreranno grande fatica e pazienza per riuscire a mettere a fuoco, anche solo parzialmente, lo tsunami che ha colpito l’occidente tutto, quell’onda che, nel giro di poche settimane, ha spazzato via abitudini e consuetudini costruite nel tempo, in decenni di crescita sociale, economica e culturale.
E penso che ci servirà pure molto tempo per “poter digerire” questa esperienza, per poterla metabolizzare e comprendere come ci abbia cambiato e in quale direzione stia influenzando e condizionando il nostro futuro. Uno shock così intenso e profondo ha scosso tutti alle fondamenta con una tale profondità che non sarà né facile né scontato abitare il domani con serenità e tranquillità.
Forse oggi è un po’ prematuro tentare quest’opera di discernimento ed abbozzare valutazioni che necessariamente rischiano di essere parziali, dal momento che non siamo ancora fuori da tunnel. Eppure penso che valga la pena iniziare ad azzardare qualche idea, a lanciare qualche provocazione, a smuovere gli animi, perché il lavoro da fare è tanto e non voglia Dio che il futuro ci trovi impreparati e il domani giunga come un ladro nel cuore della notte.
Vorrei qui porre l’attenzione su un aspetto tra i tanti che si potrebbero (e che si dovranno) toccare: quello della salute, che è, con tutta evidenza, la sfida principale che oggi ci troviamo a combattere. È, infatti, quella che richiede una risposta non solo tattica, ma anche strategica, non solo nell’ottica di una risposta all’emergenza ma anche come prospettiva di intervento a lungo periodo.
L’epidemia cui stiamo tutti assistendo ci ha confermato, qualora qualcuno ancora nutrisse qualche dubbio, che la salute è un bene comune e che, come tale, va promosso e tutelato. In nessuna società – soprattutto nella nostra così interconnessa e globalizzata – la salute di una persona può prescindere dalla salute degli altri. Essa, al pari dell’acqua, della terra, dell’aria, non è solo un bene personale, ma possiede un’intrinseca dimensione pubblica, sociale, comune. La “mia” salute è un bene collettivo e che riguarda la vita di tutti, giacché la sua incuria minaccia la serena e pacifica esistenza degli altri membri della medesima comunità. Un po’ come avviene in una famiglia: quando un membro sta male, anche tutti gli altri ne sono, più o meno, colpiti, se non a livello medico, quanto meno a livello psicologico, di convivenza e di serenità. Allo stesso modo la salute – la salute di ciascuno – appartiene come un bene a tutti e solo quando a tutti sono assicurati dei livelli accettabili di cura, una comunità può vivere serena ed in pace.
La salute – bene comune – trova la sua tutela e protezione attraverso un sistema sanitario pubblico ed universale. Penso che la creazione di sistemi sanitari pubblici sia stata una delle grandi conquiste del “Welfare State” europeo. È grazie ad un sistema davvero universale e di libero accesso che è possibile garantire le cure, soprattutto in una situazione di emergenza come quella che stiamo attraversando. Solo nella misura in cui le “cure sanitarie” non sono un “prodotto” da acquistare o da vendere, è possibile assicurare assistenza ad ogni uomo, indipendentemente dal suo tenore di vita, dal suo reddito, dalla sua cultura, appartenenza sociale o etnica. Modelli alternativi – come quello statunitense basato su un sistema di stampo assicurativo – stanno manifestando tutti i loro limiti: non solo sul piano etico-morale (sono note le linee guida di alcuni stati americani, i quali scoraggiano l’intubazione a persone con disabilità fisica e mentale) ma anche su quello dell’efficacia della tutela sanitaria.
Parlare di un sistema “pubblico” non significa riferirsi necessariamente ad un sistema “statale”: le due cose non coincidono affatto. Un sistema pubblico si struttura anche grazie al contributo ed al sostegno dell’impresa privata, in un modello di integrazione e collaborazione che non fa però del profitto il primario obiettivo da raggiungere.
Il punto qui è quello di interrogarsi se il sistema capitalistico, di cui in questi anni abbiamo assistito ad una acritica celebrazione, sia davvero in grado di garantire quell’humus socio-economico nel quale non solo si persegue la crescita del profitto, ma anche la promozione della persona umana. Scriveva il Professor Stefano Zamagni, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali: “La lezione principale è che il modello liberista è il nemico numero uno. Fino a qualche tempo fa c’era chi ancora inneggiava al neoliberismo. O chi confondeva il globalismo con la globalizzazione, quando naturalmente si tratta di cose molte diverse. È sempre il vecchio concetto caro ad Adam Smith, secondo cui la marea quando si alza solleva tanto le imbarcazioni grandi quanto quelle piccole, la teoria secondo la quale in economia c’è sempre una mano invisibile che aggiusta tutte le cose. (…)” La storia anche recente ha testimoniato che le cose non vanno proprio così. “Bisogna distinguere – aggiunge Zamagni – sempre fra capitalismo ed economia di mercato. Dire che bisogna accettare il primo per salvare il secondo è una grande falsità.”
Forse il tema della sanità pubblica ed universale è strettamente connesso con quello del modello di sviluppo economico che ogni società decide di adottare: in fondo il sistema sanitario e la rete di protezione della salute di tutti sono solo una rotella di un più complesso ingranaggio, che attiene al funzionamento complessivo della nostra società e della nostre economie.
Mi chiedo allora se questa crisi sanitaria non ci stia spingendo a riportare in superficie una vecchia – e forse logora – domanda su quale modello di sviluppo assicurerà al meglio il nostro futuro e la nostra felicità. A dire il vero, è un interrogativo che ha accompagnato la riflessione di molte generazioni nel passato ma che è uscito un po’ dall’agenda della politica attuale. Il nostro tempo di consumismo ed edonismo spinto ha un po’ rimosso questa domanda dal dibattito pubblico, relegandola nello spazio delle utopie e delle ideologie. Forse è venuto il tempo di riprendere in mano la questione e di confrontarci insieme, anche alla luce di quello che sta accadendo, su come immaginiamo la società del domani, affinché sia capace non solo di garantirci il giusto profitto, ma anche la sicurezza sociale e la tutela della salute.
Credo che sia venuto il tempo di mettere questo tema ai primi posti della nostra agenda politica: se non per un vago interesse filosofico o culturale, quanto meno per una semplice necessità di sopravviveva.
Questo mio articolo è stato pubblicato sul numero di aprile di LodiVecchioMese