Serve molto coraggio per lasciare andare, per non trattenere e per non imprigionare. La nostra voglia di controllo, di possesso e, talvolta, di dominio ci impediscono di sperimentare un senso sano e rasserenato della separazione.
Chissà perché ogni nostra lasciata ha sempre il gusto amaro del tradimento, della rinuncia, della perdita e della sconfitta; come se valesse solo ciò che tratteniamo, ciò che controlliamo, sorvegliamo e governiamo.
Succede con le esperienze: a quante “cose passate” restiamo dolorosamente legati, quasi ingabbiati, come sequestrati da eventi di ieri a cui continuiamo a dare ascolto e credito.
Succede pure con le persone, per le quali non giunge mai il tempo della partenza e dell’indipendenza. Sappiamo bene che la crescita prevede, in modo ineludibile, questo momento di rinascita; eppure fatichiamo sempre a portarne il peso, troppo greve per le nostre esili spalle e troppo urticante per la nostra sensibilità.
Succede con le nostre convinzioni ed i nostri pensieri, a cui ci aggrappiamo con insana rigidità, indisponibili a cambiare idea, posizione e sguardo.
Succede addirittura con le cose che conserviamo come inefficaci talismani o impossibili feticci.
Sia che si tratti di persone, di cose o esperienze, di pensieri o giudizi, l’atto del lasciar andare è qualcosa che compiamo con scarsa naturalezza e convinzione.
L’habitus della libertà esige questo nomadismo esistenziale, quale condizione per diventare uomini sempre più veri: non si cresce restando sempre nello stesso luogo, con le stesse persone e con le stesse idee in testa. In fondo ciò che è lasciato non è perduto, ma custodito dalla vita, conservato e difeso affinché ci sia restituito, rinnovato, a tempo debito.