salario e natura

Lo scorrere degli anni non ha fatto altro che aumentare il divario tra coloro che guadagnano uno stipendio “normale” e coloro che prendono cifre esorbitanti. È uno degli effetti collaterali della globalizzazione: il divario tra ricchi e poveri, o se vogliamo, tra ricchi e ricchissimi, anche nei Paesi più avanzati, cresce giorno dopo giorno.

Nel 1965 un CEO prendeva circa 21 volte lo stipendio di un suo dipendente medio. Alla fine degli anni ottanta già questo rapporto era salito a 61. A metà degli anni novanta divenne 118 e addirittura 366 nell’anno duemila. Da lì in poi è stato un po’ un sali e scendi continuo, a motivo della crisi economica di quegli anni, comunque fluttuando tra 300 ed il 350 (con un’unica eccezione nel 2009 quando il rapporto si fissò sul valore di 178). Il valore più recente, quello del 2019, evidenzia che un CEO prende circa 320 volte lo stipendio di un lavoratore medio della propria azienda.

Il dato parla da sé: anche a livello di salario assegnato a ciascun lavoratore, la società contemporanea avanza verso una progressiva concentrazione della ricchezza nelle mani di poche persone. Il sogno che la globalizzazione, lasciata a se stessa, portasse una naturale ridistribuzione dei beni, penso sia una illusione di cui occorra prendere consapevolezza in maniera chiara. Chi è ricco aumenta la propria ricchezza e chi è povero lo diventa sempre di più; e questo anche nelle società occidentali, dove il benessere è cosa diffusa e capillarmente distribuita.

Oggi si celebra la giornata del Creato, una occasione per riflettere sulla responsabilità verso la natura e l’impegno a tutelare e custodire il creato.

Certo questa disomogenea distribuzione della ricchezza sul pianeta, tra nord e sud del mondo, ma anche all’interno delle società più ricche, testimonia un tradimento di quella destinazione universale dei beni che è alla base di una sana e pacifica convivenza tra gli uomini. Questa fame vorace di ricchezza si riflette nel nostro rapporto del creato, svilito ad una grande “cava” da cui estrarre, con prepotenza ed irresponsabilità, quello che è funzionale al nostro smodato appetito.

In fondo “tutto si tiene”: le relazioni malate tra uomini, classi, società, comunità e popoli si riflettono sul modo disfunzionale con cui abitiamo il pianeta.


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