“Teniamo alte le nostre teste rasate”

Mi ha colpito leggere su un quotidiano la recente scoperta di un libro di poesie che risale al 1943. Venne scritto da alcune detenute nel campo di sterminio di Auschwitz ma è stato rinvenuto solo alcuni giorni fa nell’armadio di una ex-deportata. Il quaderno inizialmente serviva per conservare il nome delle compagne morte ma, in seguito, divenne una specie di “diario segreto” dove le detenute scrivevano poesie e pensieri. Se lo passavano segretamente di mano in mano, per timore di essere scoperte dalle guardie.

Mi ha colpito il fatto che in luogo di dolore, in cui i bisogni primari venivano calpestati, dove mancava cibo e acqua, dove le percosse erano all’ordine del giorno e la vita a rischio in ogni instante, ebbene in un luogo così terribilmente e drammaticamente disumano, qualcuno potesse sentire il bisogno di scrivere poesie. La brutalità e la durezza della vita in un campo di concentramento contrastano con la bellezza e la passione, apparentemente aristocratica e altezzosa, dei versi.

Come si possono scrivere poesie in un luogo di morte? “Come cantare i canti del Signore in terra straniera?” pare di ascoltare dal salmo 136? Come scrivere – o solo pensare – versi in quell’esilio babilonese che è un campo di sterminio?

Forse la risposta arriva da un piccolo verso che è stato reso noto sulla stampa: «Teniamo alte le nostre teste rasate».

Per quelle donne la poesia è stata una forma di resistenza, una forza di difesa, una sorgente di tenacia e lotta. Si scrivono versi per restare uomini, per non perdere quel minimo di umanità che riverbera debolmente dietro una palizzata in filo spianto. Non scrivi poesia per un effimero senso estetico o per una boriosa forma di superiorità. Si scrivono parole per custodire il senso dell’umano, per tracciare con la voce quella linea che separa l’uomo dalla bestia.

Si scrivono versi perché la poesia è quello scranno che ci permette di tenere alta la testa, nonostante tutto, nonostante il dolore folle ed innocente, nonostante la crudeltà disumana, nonostante la rasatura umiliante dei crani.


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