Ricordate la favola “Come il Grinch rubò il Natale” (il titolo originale “How the Grinch Stole Christmas!”)? Si tratta di un racconto per bambini scritto in versi in rima da Dr. Seuss, pseudonimo di Theodor Seuss Geisel. Pubblicato nel 1957 è diventato con il tempo una sorta di “Pinocchio” degli americani, un classico della letteratura per bambini di tutti i tempi. La storia venne resa celebre, nel 2000, dall’omonimo film campione di incassi, diretto da Ron Howard con Jim Carrey nel ruolo del Grinch.
La storia narra delle vicende accadute nel fantastico paesino di Chinonso durante i preparativi per il Natale Tutti sono indaffarati a comprare e spedire regali e solo in questo sembra risiedere il senso del Natale. La piccola Cindy cerca di cambiare le cose invitando alla festa il Grinch, un essere verde e peloso che vive con gli oggetti prelevati dalla discarica sulla cima del monte Bricioloso. Il Grinch, seppur riluttante accetta l’invito, ma durante la preparazione dei festeggiamenti riemergono le frustrazioni che aveva dovuto subire da piccolo. Decide allora di vendicarsi rubando tutti i doni, alberi di Natale compresi. Scatta allora l’impegno di Cindy e di tutti protagonisti per salvare il Natale dalle minacce di Grinch, con l’inevitabile lieto fine garantito come in tutte le fiabe che si rispettino.
Ho pensato alla storia del Grinch quando, in questi giorni, ho ascoltato innumerevoli appelli a salvare il nostro Natale, a difendere la più importante festa dell’anno dalla pandemia COVID, moderno Grinch di questo tumultuoso duemilaventi. Al grido “salviamo il Natale”, la battaglia sta divampando su vari fronti: anzitutto quello economico. Il Natale rappresenta una fetta importante di guadagni per moltissime categorie di lavoratori e lo sforzo si concentra a non ridurre consumi e spese e a non contrarre il volume degli affari proprio in questa ultima parte dell’anno.
La battaglia si accende anche nella difesa delle tradizioni, delle usanze e delle celebrazioni. Il Natale forse è la festa dell’anno che più ha inciso nel costume dei popoli europei, tanto da condizionare la cucina, gli addobbi, i vestiti, i comportamenti, le usanze, i riti e gli affetti familiari. A Natale si fanno il presepe e l’albero quasi in ogni casa, arricchita pure da altri addobbi colorati; si mangiano panettone e pandoro e molti altri piatti tipicamente natalizi; a Natale si sfoggia l’abito migliore, si organizzano rimpatriate famigliari, accompagnate da lauti pranzi e cenoni; per questa occasione ci sono canti e nenie dedicate, una diffusa tradizione di scambiarsi regali ed auguri; a Natale ci sono concerti, cori, spettacoli e rappresentazioni; solo a Natale senti nell’aria quel senso di festa, di pace e di serenità. Sono tutte cose che il COVID rischia di compromettere e che, secondo alcuni, meritano una degna difesa.
Non dimentichiamo la battaglia in difesa dei riti e delle celebrazioni: anche questa sta impegnando molte energie! Anche se è la Pasqua il cuore dell’anno liturgico, è il Natale la festa più sentita da credenti e non credenti. La messa di mezzanotte è un rito anche per chi vive una fede distante o tiepida. La visita al presepe, l’accensione di un cero, i canti tradizionali appartengono un po’ alle tradizioni del Natale a cui pochi vorrebbero rinunciare. Per alcuni poi il Natale diviene un evento identitario, segno indelebile della cultura cristiana, luogo simbolico di resistenza e di difesa contro l’incalzante post-modernismo. Natale diventa così l’emblema di una storia culturale da difendere giacché la si percepisce minacciata; è come un totem da venerare in maniera un po’ ossessiva e assillante.
Eppure mi chiedo se questo Natale così strano non possa trasformarsi nell’occasione, forse temuta ma davvero benedetta, di cambiare prospettiva, di vivere una conversione dello sguardo e del cuore. Mi chiedo se questo tempo di COVID non sia l’opportunità che la vita ci offre non di “salvare il Natale” ma di “lasciarci salvare dal Natale”.
Forse è giunto il tempo in cui il Natale torni ad essere qualcosa da attendere e non da preparare, un evento da accogliere e non da fare, una festa da celebrare e non un party da organizzare. Non sarebbe bello, almeno per quest’anno, se “lasciassimo fare” al Natale? In modo che esso possa suonare come una sorpresa nella nostra vita, coma un annuncio insperato, come una notizia non scontata e prevedibile. Non sarebbe bello se a Natale ritrovassimo la sorpresa di una Gioia gratuita, eccedente, straripante, che non sia frutto dei nostri sforzi, dei nostri calcoli e progetti? Una Gioia donata ed impensabile, come quella che gli angeli hanno annunciato a dei pastori un po’ assonnati nel cuore della notte…
Proprio in questo tempo di malattia, isolamento e fatica, come sarebbe bello lasciarci salvare da un Natale che annuncia la Novità di una Compagnia, il Germoglio di una Speranza, la Promessa di una Consolazione; e che proclama con gaudio che la nostra carne, per quanto debole e malata, è luogo in cui la Vita trova stabile dimora;
Personalmente ho tanto bisogno di trovare una parola di salvezza in questo Natale tanto particolare: una parola che mi ricordi il miracolo di ogni ricominciamento, lo stupore spaesante di ogni nascita, la meraviglia inattesa di ogni inizio. Magari mi sbaglio ma penso che la fame di vita e di speranza che ciascuno di noi sperimenta in questi tempi bui di pandemia, potrà trovare una qualche consolazione solo se sapremo abbassare la guardia e permettere al Natale di venire in aiuto delle nostre esistenze.
Questo mio articolo è stato pubblicato sul numero di Dicembre di LodiVecchioMese