“Try to stop me”, “provate a fermarmi” è il messaggio postato in una storia di Instagram da Ibrahimovic insieme al video che lo vede correre in solitaria nella neve. La memoria, scherzi dell’età, mi rammenta un’altra dichiarazione di un altrettanto celebre protagonista del calcio nostrano. È di un Antonio Conte di annata che sentenzia alla stampa: “La parola paura non fa parte del mio vocabolario”.
C’è sempre molto machismo nei nostri calciatori, eroi che non temono la sconfitta, la paura ed il limite. È gente “speciale”, che sa superare gli ostacoli che si materializzano nella loro personalissima corsa verso il successo. Nulla può fermarli, nulla li fa inciampare o retrocedere. Il loro procedere è sempre coraggioso, al limite della boria e dell’arroganza, con quella tracotanza tipica di chi sa di avere una marcia in più rispetto agli altri. Il successo, la popolarità, la ricchezza e la sovraesposizione mediatica li trasformano in semi-dei, uomini quasi divini che sfuggono alle normali fatiche e limitazioni di noi, gente comune. Le loro parole gli atteggiamenti e le esibizioni alimentano questo mito senza tempo, il nuovo misticismo della contemporaneità, la religione laica del successo.
È davvero strana questa cosa perché ho l’impressione che diventare uomini significhi esattamente la cosa opposta: accogliere ed integrare la nostra dimensione di finitezza, di limite, di misura. Diventare uomini forse significa abbandonare quella pretesa onnipotente ed un po’ onirica della fanciullezza, che ci illudeva di essere tutto, di potere tutto, di essere speciali, imbattibili, unici.
L’essere umano è colui che ha il coraggio e l’audacia di accogliere la propria finitezza come dimensione intrinseca e costitutiva della propria esistenza. È colui che non ripudia o rifiuta il limite che lo abita ma che lo sa rendere luogo da cui slanciarsi verso l’Oltre, verso l’Altro, verso l’Infinito. È l’esperienza che il giovane Leopardi fa osservando la siepe sulla celeberrima collina di Recanati: lo sguardo infranto sulle foglie e le frasche, diventano per il poeta il trampolino per naufragare in un mare infinto, in un viaggio non impedito ma propiziato dal limite visivo imposto al suo sguardo.
È in fondo il senso del Natale che a breve celebreremo: il tutto diviene frammento, direbbe Von Balthasar, la Vita diviene carne, finita, limitata, storicamente e geograficamente collocata. È la prima legge che il Figlio è chiamato a rispettare: prima che quella mosaica, Egli obbedisce alla legge della nascita, che fa del Figlio un figlio umano, fatto di cellule e di carne, di emozioni e di sogni. Potremmo dire che diventare uomini forse significa accogliere ed onorare la nostra dimensione filiale, il nostro essere posti nell’esistenza senza che lo volessimo ed in una condizione di limite e di finitudine.
Eppure il Natale ci dice – sta forse qui la Buona Notizia – che questo limite è luogo affidabile e benedetto, è spazio di incontro e di pienezza, è condizione ed occasione per accogliere e abitare un Senso eccedente.
Non me ne voglia il caro Zlatan: non si diventa uomini ignorando o sfidando i propri limiti, bensì accogliendoli, nella propria vita, come un’affidabile promessa.
Questo mio articolo è stato pubblicato su Il Cittadino del 18 Dicembre 2020.