santa pazienza!

Tra le molte cose che questi lunghi mesi di pandemia mi hanno tolto, ve n’è pure una che, nonostante tutto, mi hanno donato. Mi riferisco alla virtù della pazienza. Lo so che sembra strano: il lock-down pare averci privato di tantissime cose, di averci sottratto la libertà e le relazioni, il divertimento e la possibilità di fare tutto quello che ci piacerebbe. È bizzarro immaginare che un lungo periodo di “mancanze” sia stato foriero di qualche cosa di buono. Eppure accade anche questo, in quello straordinario ed incomprensibile racconto che è la vita di ciascuno di noi.

Vivere significare desiderare: senza il desiderio la nostra vita sarebbe sciatta, piatta, insignificante. Il desiderio è ciò che anima le nostre giornate, ciò che alimenta i nostri sogni e ciò ci spinge a raggiungere nuovi traguardi. Senza quella pulsione che nasce dal desiderare la nostra esistenza finirebbe stanca e depressa in uno dei tanti binari morti di una stazione di seconda mano.

Ma il desiderio è esperienza complessa, mai lineare o banale, mai semplice o scontata. Accade infatti che il nostro desiderio, per quanto pulito ed onesto, sconfini nel terreno della pretesa, della rivendicazione e della presunzione. Accade quando ciò che bramiamo viene percepito come un diritto, una legittima aspirazione, una richiesta che esige immediata soddisfazione. Potrei farvi un lunghissimo esempio di tutti i desideri che, nella mia vita, sono diventate sottili ma violente, pretese: talvolta si tratta di persone, altre volte di risultati professionali, altre volte ancora di situazioni chiamate a cambiare in una determinata direzione.

La dura lezione è, tuttavia, che la realtà – direi fortunatamente – difficilmente si mostra sensibile alle nostre voglie o disponibile alle nostre pretese. Essa segue cammini e logiche che difficilmente intersecano i nostri capricci e che a stento incontrano le nostre attese. Ecco lo scacco del nostro desiderio, quell’esperienza dolorosa ed urticante che abita la frustrazione: non tutti i desideri approdano da qualche parte, non tutte le nostre aspettative vengono onorate. Di fronte a questi “fallimenti” possiamo attivare atteggiamenti di scocciato risentimento, di astiosa protesta o di mal simulata insoddisfazione. Oppure possiamo leggere questi sgradevoli insuccessi come un appello ad esercitare l’arte della pazienza.

La pazienza ha poco in comune con il con il fatalismo o, peggio, con un atteggiamento rinunciatario: non è passività o indifferenza, procrastinazione o disdetta. In realtà vi è molta forza nella virtù della pazienza: quella forza che è capace di controllare la nostra arroganza affinché le cose siano come vogliamo noi; la forza di lasciare “tempo al tempo”, sicché le persone, le situazioni e le cose abbiamo modo ed occasione di crescita. La gente paziente “ha tempo da buttare” perché è convinta che le cose crescono anche senza stare loro con il fiato sul collo; che le persone evolvono ma secondo tempi che non possediamo e non controlliamo; che le situazioni progrediscono ma con i loro ritmi e senza fretta.

Colui che è paziente non è un sempliciotto o un remissivo. La pazienza esige un cuore coraggioso e due occhi vigili: paziente è chi sa tenere testa alle avversità, anche quando esse paiono eccessive ed insensate; paziente è chi sa trovare coraggio in ogni piccolo, talvolta minuto, progresso, sapendo che esso, spesso, è l’annuncio di cose grandi; paziente è chi sa incoraggiare, sostenere, rinfrancare e consolare, risollevare e rianimare, perché sa benissimo, che per quanto possa essere lunga la notte, giungerà, presto o tardi, l’aurora.

Questo mio articolo è stato pubblicato sul numero di Aprile di LodiVecchioMese


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