Scrivere poesie oggi può apparire un gesto inusuale, controcorrente, forse addirittura eretico. In un mondo che apprezza e promuove solo quanto è efficiente, produttivo e funzionale, scrivere versi suona come una contestazione del mainstream culturale ed una violazione di codici e valori consolidati nel tempo e ampiamente condivisi. Eppure il verso del poeta mi ricorda tanto il grido di quel bambino che, nella nota favola di Andersen, urla che “il re è nudo!”: egli ricorda e proclama una verità che è, apparentemente, sotto gli occhi di tutti, ma che in pochi sono disposti a riconoscere ed onorare.
Scrivere i versi di una poesia significa compiere una precisa scelta di campo e si decide di osservare il mondo da una singolare prospettiva: quella, per dirla con Sant’Agostino, che preferisce abbandonare la logica dell’utor per abbracciare quella del fruor. Il poetare, infatti, esige di rinunciare ad ogni pretesa performativa sulla realtà e sceglie di accogliere il manifestarsi della vita nella sua eccedente semplicità. Ogni poesia è accoglienza, attesa, accadimento, disponibilità ad abitare gli spazi dell’esistenza come luoghi gratuiti e affascinanti, indisponibili e misteriosi. La poesia è lasciar accadere, è onorare la vita nella sua nuda fattualità; è silenziare ogni rivendicazione di controllo, di produttività, di dominio, per entrare docilmente nello spazio della gratuità e della libertà.
(tratto dalla mia prefazione alla raccolta di poesie di Katuscia Fiorenza Pontilunghi “Parole sparse. Sguardi“, edizioni Montedit, 2021)