referendum, internet e la democrazia

La raccolta di firme per sostenere il referendum sull’eutanasia è proceduto più speditamente di quello che ci si potesse attendere. Anche quello a favore della liberalizzazione della cannabis raccoglie giornalmente un numero significativo di adesioni. Chi ricorda la raccolta delle firme in era pre-informatica non può che restarne sorpreso: allora il processo era lungo e macchinoso, con migliaia di banchetti nelle piazze ed un tam tam porta a porta per invitare le persone a recarsi in comune a depositare la propria firma. L’esito poi non era per nulla scontato: diversi tentativi andavano a vuoto giacché il numero necessario di firme non veniva raccolto nel tempo previsto.

Oggi le cose vanno ben diversamente e occorre riconoscere che, accanto all’indubbio interesse per le tematiche referendarie, anche la firma apposta elettronicamente gioca un ruolo significativo.

Sostenere una battaglia da casa, dalla comodità della propria scrivania, attraverso un semplice click anonimo al computer rende tutto assai più facile ed agevole. Non intendo dubitare della convinzione e della serietà di chi ha firmato “virtualmente”, tuttavia credo che questo crescente fenomeno meriti attenzione e qualche considerazione. L’accessibilità del processo, fatto in sé positivo, influisce sulla logica e la dinamica che la legge impone in queste situazioni. In fondo converrete con me che firmare un referendum o mettere un like a Facebook sono due operazioni tecnicamente non così distanti tra loro. Come ricordava Marshall McLuhan, in un suo famoso libro, il mezzo diventa il messaggio: la tecnologia, in qualunque situazione o circostanza, non è mai solo uno strumento neutro ed imparziale, bensì incide profondamente sul processo stesso che esso permette.

La democrazia, così come la conosciamo, a partire dall’antica Grecia fino al parlamentarismo moderno, richiede tempi e spazi specifici. Essa impone il rispetto di un processo che possiede tempi e ritmi definiti. Vale per ogni aspetto della vita democratica: dalle elezioni alle approvazioni delle leggi; dai tempi di discussione in parlamento fino alle ordinanze di una giunta comunale. Questa precisa costruzione di tempi e spazi si struttura in una specifica “ritualità democratica”. Se ci pensate bene, la democrazia vive di riti, di particolari cerimonie che scandiscono il susseguirsi degli eventi: le elezioni (a qualunque livello), i comizi, le discussioni negli organi rappresentativi, l’emanazione delle leggi, gli atti di governo, etc. 

I riti sottraggono la pratica democratica al capriccio dei singoli, la proteggono dall’istintività e dall’emotività di coloro che devono decidere. I riti obbligano, (o forse, meglio, educano) ad un processo decisionale che sia il più possibile rispettoso, meditato, ponderato e razionale. Il rito  tende a evitare la decisone istintiva, la scelta frettolosa, il provvedimento maldestro, e costringe al tempo lungo del pensiero, alla pausa di riflessione, alla valutazione attenta e ponderata del caso.  

È evidente come l’utilizzo delle tecnologie vada ad incidere su questo delicato meccanismo di protezione, rischiando di bypassare quelle norme di controllo che ne tutelano lo svolgimento. Non intendo dubitare dell’utilità delle tecnologia come occasione per allargare la partecipazione ed il coinvolgimento. Tutt’altro. Tuttavia occorre essere saggiamente vigili nel riconoscere le potenzialità ed i rischi che ogni cambiamento inevitabilmente porta con sé.

articolo pubblicato su Il Cittadino di oggi


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