Rieccomi, dopo 2 anni, seduto al posto 6F, il mio preferito, finalmente di nuovo in volo, questa volta perso Francoforte: maschera al volto, mani igienizzate, normali procedure di distanziamento ed il consueto pacco di carta davanti a me che invade anche il posto in mezzo rimasto, grazie al cielo, libero. Le hostess offrono un cioccolatino ed una bottiglietta d’acqua: è il nuovo servizio di bordo in tempo di pandemia.
Non so se è perché ci siamo ormai assuefatti a queste abitudine igienico-sanitarie, ma confesso che in fondo la sensazione è stata quella di ritrovare vecchie usanze, stili consueti, gesti noti, spazi in cui il corpo alberga con familiarità.
Forse la cosa più differente in questo viaggio seduto al posto 6F sono proprio io: due anni di pandemia mi hanno e ci hanno cambiato e chi si sedeva al 6F due anni fa non è più lo stesso.
Penso ai tanti legami che sono nati o che si sono rafforzati, ma anche a quelli che si sono sbiaditi o si sono spenti. Penso al senso di incertezza che abita il mio cuore e che rende la speranza una virtù dura e ambiziosa da vivere. Penso al tempo che ho dedicato alle persone, alla passione e all’impegno che ci ho messo, e come tutto questo mi sia stato ritornato sotto la forma di un seme da coltivare e custodire.
Non so perché volare mi fa sempre questo strano effetto: stare tra le nuvole mi porta naturalmente a guardare dall’alto le cose della vita, come se il volo diventasse una sorta di sospensione dell’esistenza, una bolla temporanea in cui interrompere la corsa e provare a tirare una riga sotto tutti i numeri che hai scritto sul foglio.
Forse guardare la terra dall’alto induce a ripetere lo stesso gesto con il fluire dei giorni: ti fermi ed osservi, contempli e riconosci le piccole luci che brillano sotto di te immerse in un oscurità profonda e misteriosa.