Le mie fragilità mi rimettono al mio posto, mi costringono a fare i conti con la verità della mia esistenza, con crudeltà ma anche con grande onestà.
È facile prendere una sbornia, smarrire la misura delle cose e costruire un’immagine di se esagerata e irreale. Ed ecco che i miei limiti, come uno specchio che riflette fedelmente la realtà, mi ricordano chi sono, mi restituiscono una misura più sobria ed autentica della mia persona. È come se ripetessero, talvolta gridando, altre volte con un sussurro leggero, “sei fragile”, “sei un uomo”, “non puoi tutto”. In altri tempi si sarebbe detto “sei creatura”, non sei tu all’origine della tua vita, non sei tu la sorgente dell’essere, non sei tu la fonte della tua pienezza.
La fragilità è sempre una maestra severa ed esigente: difficilmente chiude un occhio, di rado fa finta di niente o volge lo sguardo da un’altra parte. La mia fragilità è lì a testimoniare la durezza della realtà, la sua rocciosa consistenza e la sua radicale indisponibilità alle mie voglie e ai miei desideri.
La mia fragilità è come una ferita sempre aperta sul mio narcisismo un po’ infantile, che mi illude di essere tutto, di potere tutto, di volere tutto. Essa mi impone una obbedienza radicale ed ineludibile: quella di essere uomo, di essere dato a me stesso dalla munificenza dell’esistenza, di essere una corda che vibra a ritmo della Vita ma di non essere io la musica.