Sono rimbalzate sugli schermi di tutto il mondo le immagini del feretro della regina Elisabetta, morta improvvisamente mentre si trovava nella sua residenza estiva di Balmoral. Foto e video della bara della regina, avvolta nella bandiera di casa Windsor, hanno fatto il giro del pianeta, riunendo in un moto collettivo persone dalle più disparate provenienze ed estrazioni religiose, accomunate da un senso di lutto nei confronti dell’anziana sovrana che aveva regnato per oltre settant’anni, confermandosi una delle protagoniste indiscusse del Novecento. Per la maggior parte di noi contemporanei Elisabetta è l’unico monarca inglese che abbiamo mai conosciuto finora. Lo stesso vale per la quasi totalità dei sudditi di sua maestà, per i quali il volto di Giorgio VI è solo un ricordo custodito nei libri di storia.
Tutto il preciso, e quasi maniacale, cerimoniale britannico, è ruotato attorno al corpo della regina, onorato e salutato come una reliquia degna di venerazione. Il suo tragitto dal castello di Balmoral alla città di Edimburgo, il trasferimento a Buckingham Palace, la processione verso Westminster e il maestoso funerale: ogni tappa è stata accompagnata non solo da un bagno impressionante di popolo ma anche da un senso, oserei dire, religioso verso il corpo delle sovrana. Si è celebrata una poderosa e colossale cerimonia laica che ha ulteriormente enfatizzato la distanza e l’eccellenza del corpo della regnante rispetto a quello di tutti i suoi sudditi. È come se si fosse imposta una separazione tra il corpo fisico e quello simbolico di Elisabetta II: se, da una parte, l’esperienza della morte ha reso la persona della regina radicalmente simile a quello di tutti noi, dall’altra la dimensione regale ha trasformato le sue spoglie mortali in un simbolo a cui non è concesso condividere la sorte di tutti. È singolare questo fatto.
La morte da sempre ha rappresentato una sorte di “livellatore sociale”, sicché il ricco ed il povero, lo stupido e l’istruito, l’operaio ed il manager, lo straniero ed il nativo, la rock-star e l’ultimo dei manovali giacciono, alla fine dei loro giorni, nella medesima terra, accolti dal medesimo ventre che li aveva generati tempo prima. Di fronte all’atto supremo del morire, l’uomo si ritrova nudo davanti a quella soglia che ci appartiene in quanto esseri viventi, deprivato di titoli ed onori, di ricchezze e posizioni sociali, di onorificenze e decorazioni. Nudi veniamo al mondo e nudi lo lasciamo.
Questa legge inaggirabile della natura accetta una sola sospensione: quella che avviene in virtù ed in forza della cultura. Il corpo del sovrano non ha più nulla di reale, di fisico, di concreto ma diviene un simbolo, entrando in quell’universo di significati che eccede la fatticità delle cose. Esso diviene un emblema, una bandiera, un simulacro, un luogo in cui si condensano i valori e gli ideali di un popolo, addirittura le sue istituzioni politiche e sociali, il senso del suo essere comunità, come se in quelle membra inermi si celebrasse il senso di una storia, il destino di un popolo ed il vincolo supremo della comunità. È il potere sorprendente dei simboli, la forza di quell’universo simbolico senza il quale non riusciremmo a comprendere molti fenomeni umani ed espressioni popolari. È la forza del simbolo che rende delle povere membra senza vita una sorta di “totem”, capace di attivare energie, sentimenti, passioni, pulsioni e affetti; è il valore trasfigurativo del segno che innalza cose normali e prosaiche all’olimpo degli ideali, dei valori, dei supremi significati morali.
Il corpo della regina inglese ci rammenta quanto la nuda concretezza delle cose si animi di significati che la eccedono, la penetrano e che trascendono l’apparente banalità del reale.