pane per il banchetto

Se c’è un esperienza che allo stesso tempo ti “crea” e ti “annienta” questo è proprio la sofferenza.

Non la sofferenza come categoria metafisica, come concetto filosofico o come stato della mente. Mi riferisco alla sofferenza che ti entra nella carne, di quella che ti toglie il sonno e il fiato, quella che corrode l’animo come un acido potente, quella che percepisci come una scure pronta a colpire le tue membra. Il dolore ha questo strano “duplice effetto”, quello di renderti più uomo e quello di annichilire la tua umanità, quello di generare nuova consapevolezza e colpire mortalmente le tue speranze. Non c’è sofferenza che non porti in dono questi frutti, entrambi allo stesso tempo; che non mostri questa sua ambivalente affezione nella tua vita.

Infatti il dolore è come un pacco esplosivo posto alle fondamenta della tua vita, pronto per essere fatto detonare e fare così implodere tutta la costruzione. È come un morbo che ti entra nelle viscere ed  inizia ad infettare i tessuti e gli organi, diffondendo il suo male cancerogeno in tutte le membra.  È come un sipario che si chiude sulla tua vita, ponendo fine allo spettacolo, come un’improvvisa sospensione dello show, senza titoli di coda, senza applausi finali né fiori lanciati agli attori. E così resti lì immobile, di fronte a quel telo tirato anzitempo, e ti chiedi che senso abbia, che cosa succederà adesso, e se la vita ha in cartellone qualche replica.

E tuttavia il dolore sa anche essere un angoscioso processo di “semplificazione”,  di “riduzione all’essenziale”, al cuore delle cose della tua esistenza. Non tanto, e non solo, in un senso mistico, sacrificale o riparatorio. No, prima di tutto in un senso carnale, patico, drammaticamente concreto e realistico, quasi in modo crudelmente e ruvidamente reale. Il dolore ti spoglia, ti mette a nudo, fa cadere sovrastrutture ed illusioni,  distrugge pregiudizi e fantasie, e ti lascia lì, nudo e solo, uomo, solo uomo, niente di più e niente di meno.

È forse questo il suo potere rigenerativo, la sua dimensione tragicamente “maieutica”: quello di ricondurti a casa, a quello che sei, alla vera dimensione della tua umanità, alla tua statura, alla verità della tua condizione, all’epifania del tuo essere, a ciò che sei, qui, ora, in questa fase della tua vita.

In fondo il dolore è come l’amore, muove gli stessi passi, segue la stessa danza, vibra alla stessa melodia.

Perché l’amore come vi incorona, allo stesso modo può crocifiggervi.
E come vi fa fiorire, allo stesso modo vi recide.
Allo stesso modo in cui ascende alle vostre sommità e accarezza i vostri rami più teneri che fremono nel sole, così può scendere fino alle vostre radici e scuoterle fin dove si aggrappano alla terra.
Come covoni di grano vi raccoglie intorno a sè.
Vi batte fino a spogliarvi.
Vi setaccia per liberarvi dai vostri gusci.
Vi macina fino a ridurvi in farina.
Vi impasta rendendovi malleabili.
Poi vi affida alla sua sacra fiamma, per rendervi pane sacro per il sacro banchetto di Dio”. Dal libro “Il profeta” di Kahlil Gibran (Gibran Khalil Gibran)


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