Ci sono anni in cui non è semplice celebrare la sagra del Ringraziamento, che ogni fine ottobre arriva puntuale ad introdurre nel clima tardo-autunnale. Non è facile, perché quella parola “grazie” nasce dalle tue labbra come qualcosa di innaturale, di forzato e di poco spontaneo.
In altre stagioni questa “parolina” veniva pronunciata con più convinzione e slancio, con un cuore che provava riconoscenza e gratitudine per quanto l’anno aveva donato generosamente. Diciamo che essa pareva una cosa più sincera, più in sintonia con i tuoi sentimenti e convincimenti. Dicevi grazie e a quel grazie ci credevi lo sentivi tuo, ci mettevi orgoglio e passione.
Altre volte, invece, questo “grazie” è detto a denti stretti, biascicato con le labbra, pronunciato più per convenzione e tradizione che per intima convinzione. Pronunci quel termine ma non ne sei mica sicuro; lo vivi come un rito a cui adeguarsi o un comandamento a cui obbedire. Perché, guardando al tuo anno, senti che c’è qualcosa che blocca lo slancio entusiastico, che gela lo spirito, che placa il tuo trasporto. Intendiamoci: non è che non ci siano delle cose belle di cui essere riconoscente; è che però il saldo a fine anno è tristemente negativo, c’è un segno meno davanti all’importo di chiusura. E i tanti o pochi importi positivi non sono sufficienti per dire di aver chiuso l’anno “in utile”
Ma forse è proprio in questi anni così “a debito” che la parola “grazie” accede ad un livello di profondità che non avresti immaginato. Perché per dire “grazie” in tali frangenti non basta guardare alla superficie delle cose, ma devi fare lo sforzo di scavare in profondità e individuare ragioni più radicali e meno ovvie. Dire “grazie” quando tutto va bene è cosa facile e spontanea, forse addirittura ovvia e banale. Dire “grazie” quando le cose non vanno, quando una fatica, un insuccesso, una malattia, un fallimento, una separazione, un lutto, un dolore o un evento nefasto della vita ti hanno “tagliato le gambe”… beh dire “grazie” diviene una scelta coraggiosa e dura, sfidante ed impegnativa, perché obbliga ad andare al di là di quel fallimento o dolore, per riconoscere le ragioni più profonde ed autentiche.
Significa fare come quell’uomo in cerca di perle preziose, che non si accontenta di quelle che affiorano in superficie, che le trova “lì belle che pronte” sul suo cammino, ma è costretto a cercare, a scavare, ad indagare, a scavare il terreno, a rovistare tra gli oggetti, senza mai perdersi d’animo, anche quando la perla non si offre spontaneamente al suo sguardo.
I “grazie” pronunciati così sono quelli più costosi ed impegnativi, ma forse anche quelli più veri, perché scaturiscono, timidi e umili, da quelle bracci tiepide che ancora ardono sotto la legna ormai esausta.