Viviamo tempi un po’ complicati ed ostili se occorre prendere la parola, insieme a tanti altri in questi giorni, per difendere (se così si può dire) la giovane cooperante, rapita qualche giorno fa in Africa e fatta oggetto di affermazioni violente e volgari.
È preoccupante la convinzione, ormai sempre più diffusa, che aiutare gli altri sia un fatto da criticare, censurare o nascondere, soprattutto quando questi “altri” hanno il colore della pelle e tratti somatici diversi dai nostri.
È successo la stessa cosa alle ONG che, nel Mediterraneo meridionale, salvavano le vite in mare e accusate, un po’ a buon prezzo, di essere complici della tratta di essere umani. Il tutto senza fare alcuna distinzione né specificazione. Un po’ semplicemente e sommariamente si prendono le colpe di alcuni (tanti o pochi non saprei) per gettarle sulle spalle di tutti: tutti complici, tutti colpevoli, tutti rei di aver creato o aggravato i problemi.
Lo stesso vale per chi oggi lavora per l’integrazione e la solidarietà: lo deve fare un po’ sottovoce, lontano dalla luce dei riflettori, non per un sano senso del pudore (come sarebbe giusto che fosse), ma per evitare l’accusa di “collaborazionismo”. Fare del bene oggi è qualcosa di cui andare poco fieri; anzi, qualcosa da farsi perdonare, quasi una debolezza per cui chiedere scusa. E così la giovane cooperante deve essere giustificata: occorre spiegare ed argomentare i motivi che spingono una giovane e promettente ragazza di vent’anni a lasciare tutto per andare in un paese lontano, ad aiutare alcuni perfetti sconosciuti; ed così eliminare il sospetto che fosse una sprovveduta o che fosse partita per divertirsi, per fare una vacanza o alla ricerca di forti emozioni.
Il punto è che quando l’altro, chiunque esso sia, diviene il nemico, ebbene, ogni forma di aiuto nei suoi confronti rischia di venire additata come “collaborazionismo”; se dall’altro mi sento minacciato, allora ogni sostegno o assistenza la sua vita diviene un atto di tradimento verso la propria piccola e ristretta comunità di appartenenza.
In una cultura che cerca di affermare sempre di più e con forza “prima noi e poi gli altri”, fare del bene, spendere tempo ed energie per gli altri, suona come qualcosa di eretico, di blasfemo, oppure, molto più semplicemente, qualcosa di assolutamente incomprensibile, quasi fossero parole pronunciate in una lingua sconosciuta.
C’è una grammatica del dono a cui tutti dobbiamo, in qualche modo, rieducarci; ci sono verbi scandalosi che sono usciti dal nostro vocabolario familiare e comunitario, e che meriterebbero di essere imparati di nuovo: dare, donare, ringraziare, perdonare, condividere, restituire, incontrare, ascoltare, comprendere, ricordare, custodire ed abitare (e penso la lista sia assai più lunga)
Ho sempre più l’impressione che siamo giunti ad un punto della nostra vicenda umana in cui occorre impegnarsi per riapprendere la “grammatica dell’umano”, quei gesti, quelle parole, quegli atteggiamenti o comportamenti che ci connotano, che fanno di noi “animali appartenenti alla specie umana”.
Molti pensavano che, dopo le vicende del Secolo Breve (così come alcuni chiamano il Novecento) tutto questo non fosse più necessario, in quanto patrimonio ormai consolidato e acquisito della nostra cultura. Evidentemente non è così. E allora non ci resta che ripartire da lì, da quelle parole che ci distinguono in quanto “uomini”. E farlo senza esitazione o remore, ma con coraggio e convinzione.