effetto NIMBY

Gli americani lo chiamano “effetto NIMBY”: letteralmente “Not In My Back Yard” ossia “non nel mio giardino”. È una espressione che è stata coniata negli anni 1980, attribuita a W. Rodger dell’American Nuclear Society e legata al politico inglese N. Ridley, che fu segretario di Stato del partito conservatore per l’ambiente. Con questo acronimo si tende a identificare l’opposizione di alcuni membri di una comunità locale ad ospitare sul proprio territorio un’opera di interesse pubblico, sia essa una centrale elettrica, una discarica, una strada ad alta percorrenza, un ospizio o qualunque altra opera che in qualche modo intacchi lo status quo di quell’area geografica o di quella comunità locale.

La cosa sorprendente è che nella maggior parte dei casi si tratta di interventi che gli stessi oppositori reputano importanti se non addirittura indispensabili per la comunità. Chi potrebbe opporsi alla costruzione di una scuola, di un ospedale, di una tangenziale o anche di una necessaria discarica di rifiuti? Sono tutte opere che qualunque persona di buon senso giudicherebbe necessarie per la normale convivenza. Il punto quindi non è tanto la natura dell’opera quanto la loro collocazione. La logica del ragionamento è po’ questa:  so che questa opera è indispensabile ma non voglio che venga costruita vicino a casa mia. Siamo tutti convinti che una tangenziale che devia il traffico dal centro storico sia un’ottima cosa ma quando quella strada passa vicino a casa nostra, beh, le cose cambiano. Le discariche o gli inceneritori? Certo che servono! Dove metteremmo i rifiuti altrimenti…Ma attenti a non farlo sul mio territorio perché in tal caso mi oppongo con tutte le mie forze.

È evidente che questo ragionamento non tiene conto del fatto che ci sarà sempre un “vicino” accanto a cui la strada dovrà passare e qualcuno che sarà confinante ad un inceneritore in costruzione. Se tutti adottassero la spirito NIMBY non si potrebbe costruire nulla da nessuna parte. Qualcuno ha definito questa sindrome estrema “effetto BANANA”: “Build absolutely nothing anywhere near anything”, ossia non costruire assolutamente nulla da nessuna parte, vicino ad alcunché.

Se pensate che l’effetto NIMBY sia una cosa così rara o legata ad alcune grandi opere, vi state sbagliando. L’Osservatorio NIMBY Forum per il 2016 ha censito 359 opposizioni in Italia contro opere di utilità pubblica oppure contro i progetti di nuovi impianti, con un aumento del 5% di contenziosi locali rispetto al 2015. Si tratta principalmente di posizioni avverse a centrali elettriche, inceneritori, gasdotti, ventilatori eolici, cassonetti dell’immondizia, pozzi per la ricerca di giacimenti o impianti di selezione dei rifiuti.

Le stesse ricerche attestano che nella maggior parte dei casi le forti opposizioni a queste opere sono animate da preoccupazioni tutt’altro che velleitarie: spesso si teme per la qualità dell’aria e dell’acqua (che potrebbe subire peggioramenti per via delle nuove opere); altre volte ci si preoccupa per l’impatto paesaggistico e la compatibilità ambientale; altre volte ancora esiste il timore che vengano compromessi fragili equilibri bio-ambientali e faunistici. In tutti i casi è giusto riconoscere che queste opposizioni nascono da un forte senso di appartenenza e di custodia del proprio territorio che non si vuole veder messo a repentaglio da opere che paiono inutili minacce.

E tuttavia sono evidenti i limiti  di questo modo di affrontare le questioni. L’effetto NIMBY fa dimenticare il senso di responsabilità collettiva ed il contributo che ciascuno è chiamato ad offrire per la costruzione del bene comune. Riconoscere la bontà di un’opera non è sufficiente se poi nessuno è disponibile a farsene carico e ci si aspetta che siano sempre gli “altri” (ma chi saranno poi questi altri?) a pagarne l’inevitabile prezzo. Coloro che sposano la filosofia NIMBY paiono come sognare un “altrove” che è solo immaginario: qualcun altro deve farsi carico di accogliere nella propria comunità quest’opera; ci deve essere un altro posto in cui possa essere costruita; quell’intervento deve essere realizzato in un altro modo. È palese che questo altrove non esiste e che assomiglia molto all’isola che non c’è di Peter Pan: un luogo utopico (un non-luogo appunto) dove ci aspettiamo, un po’ ingenuamente, che le cose possano trovare una soluzione.

Già.. sarebbe bello…ma sappiamo tutti che non è così. Talvolta occorre la saggezza e la disponibilità di fare un passo indietro, riconoscendo che c’è un ragionevole prezzo da pagare perché il bene comune venga attuato e che la difesa un po’ campanilistica del proprio piccolo pezzo di terra spesso non aiuta la crescita complessiva del campo.

Questo mio articolo è stato pubblicato sul numero di Marzo di LodiVecchioMese


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