L’aggettivo “mio” possiede un gusto del tutto particolare. Un bravo filosofo sostiene che il nostro processo di individualizzazione da piccoli sia iniziato nel momento in cui abbiamo pronunciato la parola “mio”. So chi sono nel momento in cui riesco a riconoscere che qualcosa mi appartiene e ad eleggere qualcosa che è “del mondo” come capace di diventare “mio”. Da piccoli questo movimento di consapevolezza personale passa attraverso le cose che definiscono il mio mondo, grazie ad oggetti che da “cose qualunque” divengono “cose mie”, distinte da tutto quanto le circonda.
La cosa straordinaria è che, con il tempo, questo aggettivo possessivo estende il proprio valore semantico e pian piano scivola dalla connotazione delle cose a quella delle persone. Anche le persone diventano “mie”: i miei genitori, i miei amici, mio fratello, i miei compagni, etc. “Mio” è sempre ciò che contraddistingue le cose che incontriamo nella nostra vita: se non diventano “nostre” non entrano realmente nella nostra esistenza.
Qualcuno, continua ad utilizzare l’aggettivo “mio” con il medesimo significato possessivo. Altri, forse non molti per la verità, imparano che “mio” può significare altro: le persone diventano “mie” nel senso che sono coloro con le quali ho creato dei legami, ho stabilito dei rapporti e ho acceso delle amicizie.
Allora un amico è “mio” perché l’ho scelto tra la folla e gli ho permesso di entrare nello spazio dei miei affetti. Così accade per i genitori, i compagni e persino con la compagna della vita.
Mi affascina questa “evoluzione” che la parola “mio” può avere: è “mio” ciò con cui ho attivato una relazione significativa. È “mio” ciò che mi appartiene e ciò a cui appartengo, al punto tale che questa reciproca appartenenza mi definisce e mi denota.
Alla fine dire “mio” significa riconoscere che “io sono” nella misura in cui so “di chi sono”. La parola “mio” è quanto denota il mio mondo, quanto definisce il mio spazio, ed , inevitabilmente, la mia identità.