In questa irresistibile ondata di sovranismo che ci sta sommergendo, anche il presepe rischia di essere travolto dal “mood” contemporaneo, tanto che forse oggi sta nascendo una forma inedita di questa rappresentazione sacra: il presepio sovranista.
Mi riferisco a quella comprensione un po’ distorta e capovolta del presepe che ne fa una specie di simbolo dell’identità cristiana da opporre alle altre fedi e religioni. Quel piccolo bambinello nella mangiatoia, accudito da mamma e papà e attorniato da un bue e un asinello, diviene come la “bandiera” di una civiltà, l’emblema di una cultura, il simbolo di valori che possono essere utilizzati come “arma” verso coloro che provengono da mondi altri e che, magari, in quei medesimi valori non si riconoscono. Insomma il presepe diviene una specie di “spilla da attaccare alla giacca” come segno di riconoscimento e di identificazione.
È vero che ogni simbolo religioso, nel corso della storia, ha naturalmente assunto il ruolo di elemento identitario, nel quale una comunità civile e religiosa ha riconosciuto il valore del proprio passato e la ricchezza della propria storia. È un fenomeno che appartiene alla “normalità delle cose” e che la sociologia della religione ha da tempo studiato ed analizzato.
Tuttavia occorre fare attenzione che la stratificazione storica che si è creata su quel simbolo originario non porti ad un tradimento ed una negazione del valore e del significato che esso aveva. Un po’ come quelle fotografie che dimentichiamo in cantina: talvolta la polvere, che con il passare del tempo si è deposta sull’immagine, non ci permetta più di scorgere i tratti del volto della persona ritratta.
È forse bene allora, proprio nell’avvicinarsi delle festività natalizie, lasciare che le testimonianze di chi allora c’era risuonino un po’ nelle nostre orecchie e nei nostri cuori e ci ricordino quell’evento originario ed unico di cui ogni piccolo presepe che conserviamo in casa è un debole ricordo.
Giuseppe e Maria non erano proprio quello che si dice “una coppia regolare”: lei portava in grembo un Figlio di cui Giuseppe non poteva certo vantare la paternità biologica. Non so se questo faceva di loro una “coppia irregolare”; di certo, tuttavia, quanto era loro accaduto eccedeva le abitudine e le tradizioni, i riti e le buone usanze. (Non accenno qui alla straordinaria e meravigliosa paternità adottiva di Giuseppe che resta un modello ed un esempio per tutti noi padri adottivi).
L’evangelista Luca ci ricorda poi un secondo dettaglio essenziale: la scelta della coppia di rifugiarsi in una grotta per la notte. Tale decisione non fu dettata da un senso poetico o sentimentale, ma semplice conseguenza del fatto che per loro non c’era spazio negli alberghi. Giuseppe e Maria (ed il bimbo che portava in grembo) sono stati due esclusi, gente rifiutata, persone per le quali non c’era manco un angolo in una stanza al caldo. La nascita del bambino non è avvenuta nella sicurezza di un soggiorno “all-inclusive” ma nella precarietà della solitudine e del rifiuto della società.
C’è un ulteriore particolare del racconto lucano che “la dice lunga” su quella strana vicenda: la gloria del Figlio di Dio si rivela a dei pastori “irregolari” e non ai buoni credenti regolari del tempo. La tensione che abita il testo (come ci ricorda il teologo Andrea Grillo) “è tra la grandezza del Signore e la piccolezza umana che può riconoscere la gloria di Dio solo attraverso la profezia della irregolarità dei pastori”. I pastori erano gente semplice (e forse pure sempliciotta), poco istruita ed irrilevante: è proprio a loro che viene rivolto per la prima volta l’annuncio gioioso del Natale!
Nella versione di Matteo la dose è rincarata dalla stranissima vicenda di quei tre studiosi arrivati da lontano e guidati dalla stella, che si scontrano con la sonnolente indifferenza ed ostilità delle autorità politiche e religiose del tempo. Tre uomini venuti da lontano (e certamente non ebrei) sono alla ricerca del Bambinello che deve nascere; i potenti (religiosi e politici) del tempo non solo paiono disinteressati a questo straordinario evento, ma persino ostili a quella Novità che stava vedendo la luce.
Se tutto ciò non bastasse, non dobbiamo dimenticare ciò che da lì a poco sarebbe capitato a quei tre malcapitati: sempre secondo l’evangelista Matteo, Maria con Giuseppe e il Bambino dovettero rifugiarsi in Egitto per un certo periodo, per fuggire alla brama di potere e alla violenza di Erode. Il piccolo Gesù, che vediamo paffutello e tenero nella mangiatoia, imparò ben presto cosa significa essere profugo, cacciato dalla propria casa, strappato dal proprio ambiente, rifugiato in un paese alla ricerca di sicurezza e protezione.
Chiosa ancora Andrea Grillo “Il presepe significa che ultimi, stranieri e irregolari sanno riconoscere Gesù, mentre Governatori, residenti regolari e uomini per bene cercano di ucciderlo. Esattamente come accade nel cammino verso la Pasqua, quando a riconoscere Gesù saranno una donna dai molti mariti, un handicappato grave come il cieco nato e un morto come Lazzaro. Queste sono le categorie privilegiate dal Vangelo”.
Fare il presepe forse significa, in qualche misura, ricordare questa strana e straordinaria vicenda, di un Dio che entra nella Storia dalla porta di servizio, che predilige gli ultimi, gli esclusi, i bistrattai, gli stranieri ed i lontani; a cui non ripugnano i miseri, i disgraziati e gli infelici, i miserabili ed i bisognosi, gli sterili ed i malati. Fare il presepe significa riconoscere che la nostra umanità, povera, limitata e contraddittoria, così come l’umanità dei nostri fratelli più bisognosi ed irregolari, è il luogo in cui si manifesta un Senso Eccedente e Trascendente.
Fare il presepe come una difesa dalla diversità è una bestemmia: è misconoscere il senso di ciò che è avvenuto duemila anni fa e chiudere gli occhi alla “Novità sempre Nuova” che irrompe, ogni anno ed ogni giorno, nella nostra vita.
Questo mio articolo è stato pubblicato sul numero di Dicembre di Lodi Vecchio Mese