Facendo eco ad alcune suggestioni del pensiero accattivante di Emmanuel Levinas verrebbe da dire che “occorre essere in due per parlare, ma anche che occorre parlare per essere in due”… lo so: sembra un gioco di parole ma non lo è…
È vero che il parlare presuppone qualcuno che ti ascolti e che il linguaggio esige un interlocutore a cui rivolgersi. Ma è altrettanto vero il viceversa: è il linguaggio stesso ad istituire questa necessaria alterità. La parola non solo presuppone l’altro, ma apre lo spazio alla possibilità dell’altro e genera il luogo in cui tale alterità può venire riconosciuta ed accolta.
In altri termini la parola genera sempre una differenza, una separazione ed una divisione: quando ciascuno di noi dice una parola sta, consapevolmente o meno, proclamando ed onorando una alterità, “qualcosa” che non coincide con l’io e con il soggetto parlante. Il linguaggio è sempre il regno di un incontro tra sé e l’altro e tra sé ed il mondo.
La parola è appello ad un altro da sé, è invocazione di un appuntamento, di un ritrovo, di una convocazione; ogni parola pronunciata è rottura dell’isolamento dell’io ed apertura ad un orizzonte di accoglienza e condivisione. Ecco allora perché occorre parlare per essere in due: ogni alterità, ogni cosa che è altro da me, passa dalla possibilità di parlare, ossia dalla rottura dell’isolamento narcisistico del soggetto per esporsi in una esteriorità non riconducibile all’io.
Accade la stessa cosa anche quando ciascuno di noi “parla con se stesso”, riflettendo e dialogando in solitudine: l’altro in questo caso diventa lo stesso “io”, trattato come un “tu” con cui interloquire e con cui rapportarsi, come un estraneo messo di fronte allo specchio.
La parola possiede questa capacità creativa: non solo crea universi e mondi ma crea pure lo spazio in cui questi universi possono abitare.