corpi “indegni”…

C’è dunque l’esigenza di riprendere in mano il rapporto con il proprio corpo e con il corpo dell’altro non attraverso immagini idealizzate del corpo, bensì a partire dall’aspetto meno piacevole, quello della sofferenza. È quel che non vogliamo vedere, nel corpo dei carcerati picchiati e torturati, nel corpo di donne violentate, nel corpo degli scarti della società che non possiamo non incontrare.

Per noi ci sono di fatto dei corpi ritenuti “indegni”, ma anche l’umano che ha perso la sua forma e ha assunto l’indegnità richiede che si riconosca in lui la dignità umana. È soprattutto l’umano “senza qualità” a conservare quella dignità che invoca rispetto. A ciascuno dev’essere infatti riconosciuta la propria dignità non per ragioni religiose, non per obbligo penale vincolante, ma semplicemente perché ridotto a nulla: l’essere umano sfigurato genera la dignità in chi gli sta di fronte e accetta di incontrarlo, di assumere il peso di un’umanità avvilita, sprovvista dei tratti considerati necessari alla qualità determinata dalla maggioranza. Il rispetto della dignità è infatti fondato sulla nostra comune indegnità: la dignità umana, in effetti, non è un attributo dell’individuo ma una relazione, e come tale si manifesta nel gesto con cui ci rapportiamo all’altro che conosce l’abbrutimento e la dis-umanità.

Il corpo, non dimentichiamolo, permane il “luogo” della nostra iscrizione nel “senso” della vita. Nel corpo che mi accomuna a ogni umano e che da ogni umano mi differenzia e mi personalizza è incisa la mia unicità e la mia chiamata a esistere con e grazie agli altri. Il corpo, non scelto, resta però un compito da realizzare e questo rappresenta una grande sfida che richiede libertà, responsabilità e accoglienza da parte degli altri.

Così parlò Zarathustra: “Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza!”.

Enzo Bianchi su La Repubblica – 12 luglio 2021


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