È davvero difficile oggi vivere l’esperienza dell’attesa. Difficile aspettare e attendere quando siamo abituati ad avere tutto quello che vogliamo, come se fosse un diritto tutelato dalla legge, una pretesa che non ammette ritardi, dilazioni o rimandi nel tempo. Viviamo in una cultura in cui ogni piccolo afflato di volontà è appagato prima ancora che arrivi sulle nostre labbra o prima ancora che prenda forma nella nostra mente. Basta guardare i nostri figli: anestetizziamo il loro desiderare con doni e beni che loro non chiedono, quasi anticipando ogni possibile bisogno, ogni anelito o appetito. È come se il solo pensiero di una assenza fosse una esperienza talmente dolorosa e lacerante da dover essere bandita dalla vita con una quantità indescrivibile di beni capaci di sopire ogni possibile brama.
Sicché oggi chi è capace di attesa? Chi si sottomette a questa legge dura e impegnativa che richiede tenacia, pazienza e speranza? Attendere è ormai un verbo bandito dai nostri vocabolari, come un termine antico, nato quando l’uomo ancora non voleva e non poteva tutto. Tutto resta a “portata di mano”, tutto è disponibile, accessibile, pronto per la nostra presa: sia esso una relazione, un traguardo, una aspirazione, un bene, persino il corpo di chi desideriamo.
È proprio per questo che il tempo di Avvento suona un po’ come una provocazione ed una sfida alla nostra sensibilità post-moderna. Non abbiamo bisogno di attesa se tutto è già qui, è già ora, è già pronto.
Eppure, la dinamica del nostro desiderio, il fatto che esso non sia mai pago, mai completamente soddisfatto, mai pienamente sazio, ci istruisce sul fatto che, lo vogliamo o no, noi siamo esseri in attesa. La dinamica stessa del desiderio, da cui siamo abitati, fa di noi “esseri umani in attesa”, ossia persone non appiattite sull’oggi, insoddisfatte dell’istante, incompiute nell’attimo. Il movimento del desiderare crea un dinamismo di uscita, di slancio, di pro-getto, di pro-pensione e di sbilanciamento.
Non è sempre chiaro l’oggetto della nostra attesa, talvolta facciamo fatica a metterlo a fuoco. Qualche volta è un successo, una guarigione, un incontro, una promozione o una vittoria; altre volte più prosaicamente sono un po’ di soldi, una vacanza, una casa o un vestito nuovo. Altre volte ancora attendiamo la persona giusta, l’amore della nostra vita, un figlio, un amico sincero o una nuova possibilità dall’esistenza. In ogni caso il desiderio stesso fa di noi “persone che aspettano”, gente che sente come troppe strette le anguste pareti dell’oggi e ha fame del domani, del compimento, della pienezza della vita, di qualcosa capace di cucire la trama sconnessa del tempo e di aprire uno spiraglio di speranza.
Ogni anno l’avvento ci ricorda che siamo tutti gente in attesa, gente che guarda al domani come l’auspicio di un complimento e l’anelito di una promessa. L’avvento ci rammenta che siamo persone che vivono con un piede nel presente ed un altro nel futuro.
Siamo viandanti in cammino verso una meta, camminatori che, non senza deviazioni o soste impreviste, muovono un passo dopo l’altro verso il compimento di quello che sono. L’avvento parla alla nostra umanità: ci ricorda che la vita è movimento, auspicio, spinta ed attrazione, nostalgia e struggimento ardente di un avvenire.
Pubblicato su Il Cittadino del 8 dicembre 2022