Il fenomeno è già noto nel mondo dei social media: si chiama “bubble effect”, ossia effetto bolla. È quel meccanismo per cui quando navighiamo in rete finiamo per crearci una sorta di bolla virtuale nella quale stanno tutte le persone e le cose a noi affini. Sui social questa cosa ha effetti esponenziali: i contenuti proposti, le conoscenze e gli eventi sono in linea con il comportamento avuto in precedenza e quindi perfettamente aderenti ai nostri interessi. Se uno è patito di basket, per esempio, vedrà post, eventi o messaggi collegati a quella sua passione, gli verranno proposte amicizie con interessi simili o pubblicità legate a quello sport. Ciascuno di noi viene profilato e per massimizzare l’efficacia del messaggio proposto, vengono selezionate esattamente le cose che ci piacciono. Si tratta di un meccanismo di marketing che tende a personalizzare gli annunci pubblicitari per ottimizzare efficacia e resa. In fondo è inutile proporre pannolini ad una coppia anziana o dentiere ad un gruppo di giovani.
L’effetto collaterale di questo meccanismo, che dalla pubblicità si è ampiamente esteso alla realtà virtuale, è che inevitabilmente genera delle bolle, ossia gruppi di simili, in cui si condividono interessi, linguaggi, valori, comportamenti, interessi, passioni politiche o sportive. Sono piccoli “club virtuali” in cui incontriamo solo chi la pensa come noi, chi vede la vita proprio come la vediamo noi.
A questo malsano meccanismo credo siano esposti non solo i social o il mondo della rete ma, anche se in modo differente, le nostre comunità cristiane. Talvolta esse rischiano di diventare delle piccole “bolle”, calde ed accoglienti per chi le abita, ma incomprensibili ed insignificanti per chi non ne fa parte. Non è certo un fatto voluto o intenzionale: generalmente nessuno è consapevole di stare in una bolla, in quanto essa si genera “naturalmente” senza il contributo cosciente di alcuno, come un fatto che sfugge al controllo e alla percezione. Eppure l’assenza di consapevolezza non fa perdere forza e realtà a queste dinamiche che rischiano di segnare e intrappolare le nostre comunità in isole appartate e solitarie. Vivendo un po’ “in periferia” mi ritrovo spesso a guardare alle parole, ai gesti, alle esperienze della comunità cristiana con gli occhi di chi sta fuori, di chi non partecipa, di chi manca di un’alfabetizzazione religiosa minima. La mia impressione è che ascoltando le “voci” della comunità cristiana stando sul posto di lavoro, in metropolitana, in aeroporto, per strada, in un centro commerciale, esse risultano quanto meno strane e di difficile interpretazione per i più.
Dobbiamo considerare che non viviamo più in una società post-cristiana, in cui quel prefisso “post” diceva comunque un riferimento al mondo che, per quanto passato, era tuttavia presente nella memoria. Viviamo in una società a-cristiana, in cui il messaggio evangelico non viene né contrastato né rifiutato ma semplicemente ignorato dalla maggior parte degli uomini e delle donne di oggi. Siamo in un mondo in cui la fede non è negata ma semplicemente trascurata come un orpello irrilevante e non necessario per una vita piena e felice. Forse è per questo che talune parole e gesti che le nostre comunità cristiane oggi esprimono rischiano di generare un effetto bolla: utili per chi ci sta “dentro” ma insensate all’esterno.
Celebriamo in questi giorni la Settimana Santa, cuore non solo dell’anno liturgico, ma del messaggio evangelico. In questi giorni raccontiamo quella storia che è alla base della nostra vita di fede, quell’annuncio di speranza che è stato capace di riorientare la storia degli uomini da duemila anni a questa parte. Mi interrogo se questo messaggio, attraverso le parole ed i gesti che noi, come comunità cristiana, diciamo, sia ancora in grado di interpellare l’uomo di oggi. Non mi aspetto che esse sappiamo convincere o convertire (questo non sta a noi ma è grazia dello Spirito) ma quanto meno interpellare, incuriosire, interrogare, segnare un punto, un dubbio, una domanda. I nostri riti, le nostre celebrazioni, le nostre parole e gesti sono ancora capaci di raccontare qualcosa o si sono trasformati in vecchi orpelli di un passato ormai muto e insignificante? Nei secoli la Chiesa è stata in grado di creare nuove forme di comunicazione attraverso le quali la parole del Vangelo potevano raggiungere l’uomo e la donna nella loro concreta esperienza di vita: pensiamo, ad esempio, alla vita monastica, alle costruzione delle grandi cattedrali, all’esperienza dei pellegrinaggi, alle attività sociali e di promozione umana dell’ottocento. Erano tutti modi in cui avveniva quella “traduzione della tradizione” che rendeva il Vangelo qualcosa di attuale, vero, reale. Saremo ancora capaci, come comunità di credenti, di trovare parole nuove per raccontare la bellezza e la novità della Pasqua agli uomini e alle donne di oggi? Sapremo essere comunità creative e generative, luoghi in cui la fede parla alla vita di chiunque incontriamo? Saremo in grado, per usare un’espressione cara a papa Francesco, di trasformare le nostre comunità da musei in ospedali da campo, dove a ciascuno è data la possibilità di ascoltare una parola di Speranza?
pubblicato su Il Cittadino del 5 aprile 2023