Inizia a fare freddo alla mattina in stazione in attesa del treno alle sette e mezza. Il sole è ancora lontano dal sorgere ed una fredda nebbiolina avvolge lo spazio creando un atmosfera rarefatta ed un po’ surreale. I passeggeri in attesa si raccolgono a piccoli gruppi in circolo, avvolti nei loro giubbotti e scambiando qualche assonnata parola. L’inizio della giornata avviene con un ritmo pacato ed po’ flemmatico, tutti corridori di un corsa che nessuno ha davvero voglia di iniziare.
In mezzo a questo folto gruppo di lavoratori, studenti e pendolari scorgi anche un nutrito gruppo di ragazzi africani, ospiti della vicina struttura che li accoglie in attesa del riconoscimento (o meno) della protezione internazionale.
Li individui tra la folla in attesa non solo per il colore della pelle, per i vestiti un po’ stravaganti e fuori moda; né solo per le biciclette che si portano con sé per accorciare il trasferimento verso la stazione. Li riconosci anche per via di quegli sguardi vivi e luminosi, così diversi da quelli un po’ stanchi e rassegnati di noi indigeni.
Sono ragazzi giunti da molto lontano, che hanno percorso una lunga e tribolata strada e si ritrovano ora in un paese straniero, così diverso per lingua, tradizione e cultura, sostanzialmente privi di tutto, se non di quel poco che la solidarietà locale ha offerto loro. Ma non sono i beni, prima di tutto ciò, che manca loro: sentono la mancanza di legami caldi e rassicuranti, di quella rete di affetti che sostiene e colora la vita di ogni uomo.
Nonostante questa loro condizione di provvisorietà i lori occhi raccontano una storia di fiducia e speranza, attesa per un futuro da cui si aspettano grandi cose. Sono lì sul binario, a quest’ora giovane della giornata, per andare a Milano dove qualcuno ha trovato un lavoretto e dove altri sperano di cogliere qualche opportunità in più.
Li osservo con compassione e simpatia, pensando a quello che hanno lasciato alle spalle e temendo per quello che la vita potrà riservare loro. Ho il sospetto che molte speranze che si portano dentro faticheranno a vedere la luce, sia perché le loro attese sono alimentate da aspettative un po’ eccessive ed irreali, sia perché la società in cui vivono non sarà così generosa nel concedere loro molte chances.
Ciononostante questi ragazzi incrociano le mie giornate sotto il segno della speranza e della promessa. Stanno lì di fronte a me a rammentarmi quella voglia di vita e di futuro che abita ogni cuore, quella spinta ad andare “oltre” che alberga in ogni animo. Soprattutto in coloro che, non avendo niente, si attendono tutto.