Ammettiamolo: subiamo tutto il fascino delle cose nuove, delle partenze, delle cose che iniziano, di quelle che muovono i primi passi. Un viaggio, un amore, un incontro, un film, un libro… forse i primi attimi sono sempre i più belli perché carichi di attesa e di speranza. In fondo viviamo tutti di inizi, di cominciamenti, di esordi. Amiamo la gioventù perché quella è la stagione in cui ci si apre alla vita; amiamo i fidanzamenti per la carica di promessa e di novità che portano con sé; amiamo i regali proprio per quella freschezza che portano nella nostra vita.
È quando l’ebrezza del nuovo cala e ci si introduce nel tempo della normalità e della ferialità che iniziamo a subire la fatica e la noia: l’entusiasmo di prima sciama e subentra una routine che spesso logora e consuma.
Ma forse non è la ripetizione quella che ferisce i nostri sensi, né la replica quotidiana delle cose che uccide la novità. È forse quella necessità di scendere a patto con la realtà, quel dover negoziare con le situazioni e le persone, quel dover trattare con i nostri sogni, che, nella fase iniziale di ogni esperienza, sono puri e puliti. Quando la novità termina occorre guardare negli occhi l’assenza di perfezione che, sebbene sempre presente nelle nostre attese, non appartiene a questo mondo. Non ci sarà mai un diretta connessione tra i nostri auspici ed i nostri raggiungimenti, tra quanto desideriamo e quanto ci è dato di acquisire. Questo iato, questo gap, questa cesura è proprio quello che ferisce il nostro orgoglio e imbratta i nostri sogni.
“Ma tra la partenza e il traguardo
nel mezzo c’è tutto il resto,
e tutto il resto è giorno dopo giorno,
e giorno dopo giorno
è silenziosamente costruire,
e costruire è sapere
e potere rinunciare alla perfezione”
(Nicolò Fabi, Costruire)