Talvolta la vita sa essere non solo cruda ma addirittura crudele. Conosciamo tutti persone che lottano contro situazioni al limite del sopportabile, che hanno intrapreso un combattimento sfiancante e doloroso contro le avversità.
Penso a Giovanni che lotta contro un brutto male del figlio, scoperto inaspettatamente in una serena giornata di primavera. Penso a Luisa, che ha perso tragicamente il marito e si ritrova ora sola a crescere i suoi figli ancora piccoli, senza sostegno, senza appoggio e senza consolazione. Penso ad Antonio, che sta vedendo la sorella consumarsi nel letto di ospedale, impotente, con un destino segnato ormai da tempo. Penso a Luigi e Paola, il cui figlio, ora in comunità, sta cercando di risorgere, dopo fallimenti, cadute, ferite e disperazioni. Penso a Charlie, giovane rifugiato, giunto in Italia in fuga dalla guerra e dalla povertà, ed ora preoccupato, anzi angosciato, per un futuro che non riesce nemmeno a sognare.
E chissà quanti altri dolori anonimi incrociamo in treno e metropolitana, in ufficio e al supermarket, sofferenze mute che restano celate agli occhi dei più, sguardi abbassati, volti tristi, occhi spenti senza un domani a cui aggrapparsi.
Confesso che non riesco a sentirmi un “graziato” di fronte a questa umanità sofferente, di fronte al dolore che lambisce la mia vita. Non riesco a sentirmi un “sopravvissuto”, uno “scampato”, uno che è stato miracolosamente sfiorato dalla tragedia.
Sento nella mia carne il riverbero lontano di quel dolore; patisco l’impotenza della vicinanza, la crudeltà dell’essere spettatore non pagante di questo dramma altrui. Non c’è alcuna roulette russa, nessuna giocata di dati, nessuna scommessa né bluff, nessuno sguardo distante o compiaciuto.
Ci resta solo la compassione, quel sentimento mite e doloroso di partecipazione, di comuni sentimenti, di reciproche fragilità. Non ci resta che il tirocinio della speranza, esigente ed austero, per trovare ragioni e sensi per andare avanti, per non disperare, per sopravvivere e, se possibile, per vivere degnamente. Non ci resta che una comunione mistica e spirituale, in nome della quale a ciascuno di noi è data la gioia e la fatica di portare un poco il peso degli altri.