un paese pluricentrico

I nostri padri costituenti, quando hanno pensato l’Italia, l’hanno sognata come una nazione “pluricentrica”, nella quale il potere e la rappresentanza venissero articolati su più livelli territoriali. È in nome di questo principio che nel tempo, e non senza qualche intoppo, si sono costituite strutture di governo intermedio, quali comuni, città metropolitane, province e regioni. L’idea che è rappresentata nella nostra carta costituzionale non è quella di una costruzione statale monolitica e dirigistica, compatta e rigida, bensì di un corpo unitario e duttile, vicino alle comunità e ai corpi intermedi.

Questo articolato edificio istituzionale si fonda, oltre che su un forte senso nazionale, sui principi di solidarietà e sussidiarietà: da una parte a tutti è chiesto di collaborare fattivamente per la costruzione del bene comune e dall’altra i livelli istituzionali superiori sono tenuti a promuovere e sostenere quello che ciascuna comunità “inferiore” è in grado di fare da sé. È così che una realtà pluricentrica, composita ed articolata, riesce a custodire l’unità della comunità nazionale, nel rispetto delle peculiarità locali.

Questo modello, non semplice né lineare, si fonda su un principio di leale cooperazione tra i soggetti, affinché la pluralità non diventi caos e la differenza non si trasformi in conflitto. Indipendentemente da una necessaria definizione di competenze e ruoli, costituzionalmente stabiliti, è solo quando i vari soggetti detentori di potere cooperano e dialogano tra loro che il corpo statale funziona al meglio. Il senso etico del servizio istituzionale e la collaborazione chiara e trasparente devono innervare profondamente i vari protagonisti politici, pena l’inceppamento del sistema ed il ritardo di decisioni e scelte.

Temo sia un po’ quello che stia accadendo con la gestione della pandemia del COVID-19: le decisioni e le ordinanze spesso si sovrappongono e confliggono, creando una cacofonia onestamente fastidiosa per il cittadino comune.

Il punto è che il nostro ordinamento non prevede una gestione emergenziale (come quella, di fatto, in atto in questi mesi) sicché il tutto è lasciato all’amministrazione “ordinaria” e alla normale dialettica istituzionale. È sotto gli occhi di tutti, tuttavia, i limiti, direi “strutturali”, di tale approccio: si ha l’impressione di un continuo ritardo nelle decisioni, giacché una lunga ed estenuante negoziazione si rendere preventivamente necessaria tra tutte le parti; si fatica a prendere decisioni “scomode” poiché nessuno pare disponibile a portare il peso dell’impopolarità; c’è una continua ed inopportuna polemica su ogni singola decisione, o perché è eccessiva o perché non è sufficientemente radicale. Confessiamolo: c’è pure tanto opportunismo, tanta voglia di pubblicità e di protagonismo, tanta fatica ad assumere responsabilità e decisioni non gradite.

Ebbene: il periodo emergenziale ci sta chiaramente evidenziando che questa complessa articolazione del potere richiede oggi una seria verifica ed una coraggiosa ridefinizione. Il lacerante conflitto istituzionale risulta oggi non solo fastidioso, ma, ahimè, anche assai dannoso per le definizione della strategia di uscita dalla crisi. Questo assestamento dei poteri non potrà che percorrere due strade, obbligate dal mio punto di vista: occorrerà anzitutto delimitare meglio competenze ed attribuzione dei poteri, soprattutto quando un emergenza (sanitaria in questo caso) non consente artifici, furbizie e rinvii. Se ci illudiamo, però, di poter risolvere questo conflitto con un ulteriore atto formale, credo che resteremo tristemente delusi. Serve una seconda opzione da mettere in campo: quella che passa da un recupero dell’etica civile e politica, dal senso di servizio ad una medesima comunità nazionale e dalla ripresa di “principio di leale collaborazione” richiamato al numero 120 della nostra costituzione

Questo mio articolo è stato pubblicato su Il Cittadino del 18 novembre 2020.


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