Non possiamo voltare lo sguardo

Nella follia dei giorni che stiamo attraversando, nell’incubo collettivo in cui siamo piombati, una cosa ha stupito molti: la gara di solidarietà che è scattata a sostegno della popolazione ucraina. Nel mio piccolo paese, circa settemila anime, le associazioni di volontariato, che si sono rese disponibili a raccogliere beni da spedire alla popolazione profuga, sono state letteralmente sommerse da donazioni di ogni tipo di bene: cibo, vestiti, giochi, coperte, farmaci, detergenti, etc.

Ai pochi scatoloni attesi si sono aggiunti centinaia di pacchi che hanno letteralmente mandato in tilt la macchina organizzativa, che ha dovuto trovare soluzioni alternative per gestire un flusso così inteso di donazioni. Questa non è stata un’eccezione o una stranezza: basta vedere la TV o seguire internet ed i social per rendersi conto che l’onda lunga della solidarietà ha invaso il Bel Paese, proprio come due anni fa il virus aveva contagiato le nostre terre. Siamo tutti testimoni di una straordinaria diffusione del “virus della solidarietà”, di una nuova pandemia della condivisone e della compassione.

Il gesto del dono – lo si capisce bene dall’ampiezza del fenomeno – nasce da una intensa empatia per quello che accadendo in Ucraina. Non è un atto distaccato o freddo, bensì intensamente partecipato, emotivamente connotato, mosso da sensibilità e pietà umana. Dà da pensare tutto questo: un tempo buio, tacciato di egoismo, individualismo e menefreghismo, è invece attraversato da lampi di solidarietà, da folgori di passione e da bagliori di condivisione.

Come mai tutto questo? Che cosa sta accadendo? Come spiegarselo?

Lasciando ad altri l’analisi profonda del fenomeno, mi interessa qui mettere in luce due fattori che mi paiono centrali in questo moto collettivo di solidarietà.

Anzitutto credo sia palese a tutti l’ingiustizia di cui siamo testimoni: al di là di valutazioni geopolitiche o strategiche, è indiscutibile la prevaricazione che è stata compiuta. Vi è un esercito aggressore ed un popolo aggredito, vi è da una parte un invasore e dall’altra una vittima.  Possiamo perderci a discutere per ore sulle ragioni, i prodromi, i fattori scatenanti o che altro, ma la verità dei fatti è sotto gli occhi di tutti. Vi è dunque una repulsione collettiva per l’arrogante violenza di alcuni, per la pretesa egemonica di una oligarchia che pretende di sovvertire la volontà democraticamente espressa da un altro popolo. Assistiamo ad atti palesi di abuso, di tirannia, di una violenza gratuita ed infame a cui tutti, spontaneamente, reagiamo con un gesto di stizza e disappunto.

E poi vi è un secondo elemento che merita attenzione. L’informazione globalizzata è stata capace di creare una sorta di “opinione pubblica mondiale” assai sensibile a quello che accade anche in una parte periferica del globo. Siamo tutti assai più vicini di quello che pensiamo e comprendiamo come il destino di alcuni è connesso al destino di tutti. Abbiamo assistito in diretta all’invasione dei carrarmati russi, al cadere delle bombe, alla distruzione di case, alla resistenza del popolo. La TV, internet ed i social ci restituiscono una “presa diretta” che ci fa sentire “sul pezzo”, come se la guerra si stesse combattendo a poche centinaia di metri da casa nostra. Ciò che decenni fa si leggeva in un articolo di giornale oggi lo si vede on line sul proprio telefonino, sicché tutti noi abbiamo la percezione di essere testimoni oculari di quanto accade. Non possiamo voltare lo sguardo proprio perché, volenti o nolenti, assistiamo in prima persona al massacro in atto ed il dolore di donne, uomini e bambini sta entrando crudelmente nelle nostre case.

Pur nell’assurdità del momento, la guerra ci sta insegnando e ricordando che, sebbene geograficamente lontani, non siamo poi così distanti. La sofferenza ci rammenta che l’altro può facilmente diventare fratello e che il destino di un popolo è legato con doppio filo al futuro di tutti.


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