il paradiso? basta un click!

La notizia è più o meno questa: Jang è una donna coreana che nel 2016 ha vissuto uno degli eventi più tragici che un uomo o una donna possano vivere. A causa di una malattia incurabile ha perso Nayeon, la figlioletta di sette anni. Penso non ci siano parole per descrivere lo strazio della separazione e il dolore della morte. Accade tuttavia che, quattro anni dopo, alla mamma sia donata una nuova occasione per “incontrare” la figlia perduta. Le viene in soccorso la realtà virtuale che, grazie a un simulatore con casco e guanti per le mani, è capace di ricreare un ambiente nel quale la mamma e la bambina si posso ritrovare. La donna non solo riesce a “vedere” la figlia in un luogo sereno e piacevole, ma è addirittura in grado di sentire la sua voce e di “toccare” il suo corpo, stringendolo in un caldo e commosso abbraccio. Dal punto di vista sensoriale il potente computer responsabile della realtà virtuale sa riprodurre un effetto assai vicino alla “realtà” della vita, consentendo alla madre di sperimentare quasi “fisicamente” la presenza tanto desiderata e sognata della figlia.

Ho vissuto un momento felice, il sogno che ho sempre voluto vivere. Era come fosse il paradiso” ha poi dichiarato Jang, visibilmente commossa e toccata dall’incontro. Le parole usate dalla signora Jang sono esatte e descrivono precisamente il tipo di esperienza sperimentata: quella del paradiso. D’altra parte qual è quel luogo nel quale potremo (o forse ora occorre dire “possiamo”) incontrare coloro che sono morti, se non il paradiso? Qual è quella dimensione capace di eccedere il limite dello spazio e del tempo per accedere al per-sempre dell’eternità? In quale spazio avremo la promessa di riallacciare i legami che si sono interrotti a causa della morte, del dolore e della sofferenza? Tutta la tradizione occidentale ha sempre nominato questa “u-topia”, questo non-luogo, con il termine “paradiso”. È evidente che questo singolare esperimento tecnologico non ha solo un’implicazione scientifica ma parla a qualcosa di assai più profondo e radicale nell’uomo. La tecnologia virtuale, che lo voglia o meno, assume una pretesa “soteriologica”, direbbe il filosofo, cioè ha l’ambizione di rappresentare una forma di “salvezza” per l’uomo, una risposta all’angoscia della morte, alla finitezza della vita e alla precarietà dell’esistenza. È indubbia questa cosa: sancita la fine delle “grandi narrazioni” (come direbbe Lyotard) la tecnologia rappresenta oggi per l’uomo la possibilità di una nuova forma di salvezza, di realizzazione e di superamento di tutti quei limiti che sono costitutivi della sua umanità.

Con una differenza fondamentale: se le filosofie e le religioni assumevano questo limite cercando un riscatto in una dimensione “ulteriore” e ultramondana, la tecnologia promette una salvezza “nella storia”, eliminando e rimuovendo quei limiti che strutturano l’esperienza umana, anzitutto lo spazio ed il tempo. Non per nulla questo processo prende il nome di “transumanesimo”: esso esprime la volontà di realizzare l’umano andando “oltre” l’uomo, cancellando quei limiti che sono la sua stessa possibilità di esistenza.

Ci basterà tutto questo? Intendo: sarà sufficiente alla nostra sete di felicità e di pienezza incontrare “virtualmente” i nostri cari che se ne sono andati, grazie a realtà artificiali e sempre più sofisticate? C’è da aspettarsi che, con l’evoluzione della tecnologia, questi incontri “virtuali” diverranno sempre più “reali” e “veritieri” e ci offriranno la possibilità di dialoghi sempre più “concreti” e alla portata di tutti, magari con un semplice cellulare ed un visore. Sarà sufficiente? Non ho dubbi sulla capacità della tecnica di lenire le nostre sofferenze e di offrirci un conforto al dolore, così come accaduto a Jang. Eppure mi chiedo: cosa accadrà quando, terminata l’esperienza virtuale, ci ritroveremo soli, in compagnia del nostro dolore e del senso di un vuoto che ci rimbomba dentro? Il dubbio è se la compagnia dei volti di coloro che ci hanno lasciato, la loro “presenza” virtuale” ma sempre più “reale”, ci aiuterà a rimarginare la ferita dell’abbandono o sarà un modo per sottrarla al benefico processo terapeutico dello scorrere del tempo. La disponibilità “a comando” dell’altro non è un modo per ritardare l’elaborazione del lutto e la maturazione della consapevolezza della presenza dei nostri cari secondo una modalità diversa ma assai preziosa? Sarà davvero felice l’uomo che andrà oltre l’uomo?

Questo mio articolo è stato pubblicato sul numero di Febbraio di LodivecchioMese


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