“Te fe’ San Martin?” (fai san Martino) rischiavi di sentirti dire da un vicino curioso che ti vedeva trasportare molti oggetti da un posto all’altro. Infatti “fare san Martino” dalle nostre parti è un sinonimo di “fare trasloco”, sicché quel vicino un po’ impiccione ti stava prendendo in giro chiedendoti se eri intento a cambiare casa.
“Fare San Martino” è un espressione tipica delle culture contadine, soprattutto per quelle popolazioni che nella pianura padana erano dedite alla coltivazione dei campi e del bestiame. Succedeva infatti, fino a non tantissimi anni or sono, che ai primi di novembre, appunto in prossimità della festività di San Martino di Tour (l’11 del mese), scadessero i contratti che i mezzadri stipulavano con i contadini e, qualora questi non venissero rinnovati, ai poveri malcapitati toccava cercare un nuovo impiego presso un’altra cascina. A causa dell’assenza di validi mezzi di trasporto, era usanza che il proprietario terriero offrisse, insieme al lavoro nei campi o nelle stalle, anche un casa alla famiglia del lavorante, per assicurare la sua presenza quotidiana e praticamente continua. Lo scadere del contratto di lavoro quindi assumeva anche la forma di un vero e proprio “trasloco”: il contadino con tutta la sua famiglia caricavano quelle poche cose che possedevano su un carro e si trasferivano da una cascina all’altra in cerca di occupazione.
Ecco allora che “fare san Martino” rievoca questo mesto trasferimento da una cascina all’altra, in cui il contadino, insieme a tutta la sua famiglia, era costretto a lasciare la vecchia abitazione nella speranza di trovare un nuovo lavoro e con esso una sistemazione degna per tutta prole.
Ancora oggi, nelle nostre terre, si usa ricordare questo momento di vita contadina attraverso rievocazioni in costume, con tanto di trattori, carri trainati da cavalli, figuranti in abiti dell’epoca e molto folclore al contorno. Quell’evento, che oggi si celebra come un piacevole tuffo nel passato e una testimonianza della vita che fu, era un snodo dolente della vita dei nostri padri, costretti a “emigrare” di qualche kilometro pur di trovare un lavoro, ahimè sempre misero e malpagato, per mantenere la famiglia.
La famiglia contadina viveva all’interno della corte della cascina: là si condivideva la vita di tutti i giorni, si mettevano in comune i dolori e le gioie, le sofferenze e le malattie; nella corte vedeva la luce una vera comunità di vita, a cui ogni famiglia partecipava con impegno e devozione. Non è difficile allora immaginare cosa volesse dire, per tutte queste persone, “fare san Martino”: significava lasciare dei familiari, vivere uno sradicamento da una comunità di affetti che aveva sostenuto l’intero cammino dell’anno. Non era solo lasciare dei vicini di casa: era abbandonare dei fratelli, dei familiari, gente con cui avevi condiviso la minestra, il pane, qualche gallina nel cortile, la fatica dei campi e pezzi consistenti della propria vita.
“Fare san Martino” ci riporta allora alla memoria quella condizione di precarietà esistenziale a cui i nostri nonni e bisnonni erano abituati. Nulla a che vedere con quella precarietà tutta moderna fatta di ansie, insoddisfazioni, assenza di valori e chiari punti di riferimento. No, la loro era una precarietà concreta, materiale, “fisica”: attraversavano la vita con un’insicurezza economica oggi inimmaginabile, sfrattati da un giorno con l’altro, in perenne balia di eventi, capricci, malattie e soprusi. Era gente tosta quella, gente abituata ad affrontare la vita a muso duro, senza tutele, senza garanzie e senza un conto in banca che poteva tonare utile nei momenti duri. Ma forse proprio per questo, era gente aperta e disponibile, gente generosa, capace di condividere le poche cose che aveva con chi calpestava la stessa aia. Era gente che sapeva vivere la comunità come un’esperienza irrinunciabile della vita, consapevole che i legami ed i rapporti erano l’unica “assicurazione” che la vita aveva donato loro contro le sciagure.
Era gente povera, modesta, spesso analfabeta e rozza, gente semplice, di quella semplicità che sa andare al cuore delle cose senza troppi giri di parole, complicati discorsi o faziosi ragionamenti. Era gente che conosceva la durezza e l’asprezza della vita e forse proprio per quello, possedeva una ricchezza che, a noi uomini del terzo millennio, resta, ahimè, preclusa.