Hanno riscosso molta attenzione le prime parole del cardinal Zuppi, neo presidente delle CEI, sul tema degli abusi nelle Chiesa. Sappiamo tutti come questo sia uno dei nervi scoperti delle vita di molte chiese cristiane, che si sono rese protagoniste, in alcuni suoi membri, di comportamenti non solo antievangelici ma anche violenti e prevaricanti.
Eppure ridurre il tema dell’abuso (che, ad essere onesti, non riguarda solo la vita delle comunità cristiane) a quello del sopruso sessuale rischia di confondere l’effetto con la causa e di scambiare l’epifenomeno con le radici assai più profonde che, nel tempo, hanno fatto crescere questa pianta che ha infestato parte del corpo ecclesiale, come una malefica gramigna. Se è vero che l’abuso sessuale è fatto disgustoso ma fortunatamente minoritario nella vita delle nostre comunità, l’humus che da esso prende linfa invece è assai più diffuso, anche se forse meno visibile.
Vi è una concezione distorta dell’esercizio del potere che appartiene alle nostre comunità ecclesiali, come a quelle familiari e, più in generale, sociali, e che, di fatto, creano i presupposti dei fatti più dolorosi noti alle cronache.
Il potere è una componente essenziale della socialità umana: ogni comunità umana esiste in quanto ciascuno dei suoi membri esercita, in forme diverse, un “potere”, che regola i rapporti, che determina le scelte, che orienta il cammino. Non serve disturbare l’acuta riflessione di Michel Foucault per scoprire che non esiste relazionalità umana senza un qualche esercizio di potere, il quale tuttavia rischia, come ci ammonisce lo studioso francese, di degenerare in sopruso, controllo e manipolazione.
Così è nelle nostre comunità ecclesiali, dove, storicamente, vi sono ruoli di potere esercitati da coloro che ricoprono un ufficio sacro o nelle nostre famiglie, dove la figura paterna da sempre è stata circondata da un alone di autorità e controllo.
Ebbene, l’esercizio di questo “potere”, quando viene privato della sua dimensione comunitaria, rischia di scivolare in un arbitrio spesso violento, e comunque sempre, autoreferenziale. Vi è una pratica del potere che corre il rischio di diventare padronale, autoritario ed, in senso letterale, ab-solutus, ossia sciolto da qualunque vincolo o limite, confine o controllo. Se il “ministero della presidenza” si trasforma nelle “pretesa della signoria”, alimentata da secoli di storia in cui la dimensione sinodale e partecipativa è stata fortemente penalizzata, non è difficile comprendere come forme abusanti ed aberranti abbiano lì trovato un terreno quanto meno non ostile.
Il fenomeno dolorosissimo degli abusi verrà superato certo attraverso una forma maggiore di controllo, di cura delle vittime e di processi formativi attenti all’integralità della persona umana; ma essi rischiano di mancare l’obiettivo se non saranno accompagnati anche da un ripensamento più evangelico dell’esercizio del potere dentro la vita ordinaria delle nostre comunità. Serve, forse, spezzare la solitudine del potere, depotenziare la sua autoreferenzialità e inscriverlo in una rete di legami e di rapporti capaci, da una parte di contenere possibili eccessi, e, dall’altra, di promuovere forme comunitarie e condivise di esercizio dell’autorità. Non è questione di rivendicazioni o di sterili competizioni, ma di cogliere la natura intrinsecamente ecclesiale del ministero, il suo rapporto imprescindibile con la comunità, la sua natura corale ed il suo essere servizio e non privilegio.
pubblicato su Il Cittadino del 8 giugno 2022